Douglas Adams - La vita, l'universo e tutto quanto - Urania

VIP免费
2024-12-24 0 0 324.25KB 168 页 5.9玖币
侵权投诉
Douglas Adams
LA VITA, L’UNIVERSO
E TUTTO QUANTO
(Life, the Universe and Everything)
© 1982 Douglas Adams
© 1984 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Traduzione di Laura Serra
URANIA n. 973 – 24 giugno 1984
3
1
Come sempre, nel dormiveglia, fu assalito dal ricordo di dove fosse e,
con un sincero, autentico grido d’orrore, Arthur Dent si svegliò.
Così, come sempre, cominciò la sua giornata.
Il problema non era tanto il freddo, l’umidità, il cattivo odore della
caverna. Il problema era che la caverna si trovava nel bel mezzo di
Islington, e che prima di due milioni di anni non sarebbe passato
nessun autobus.
Come Arthur ben sapeva, il tempo è il posto (se così lo si può
chiamare) peggiore per perdersi; e lui ci si era perso un mucchio di
volte: nel tempo e nello spazio. Ma, se non altro, quando ci si perde
nello spazio si ha sempre qualcosa da fare.
E così, era rimasto infognato lì, sulla Terra allo stadio preistorico,
in seguito a una serie di avvenimenti che l’avevano visto ora vittima di
esplosioni, ora vittima di insulti. Era finito nelle regioni più bizzarre
della Galassia, su pianeti che mai aveva immaginato esistessero, e per
quanto da anni ormai vivesse una vita molto, troppo tranquilla, si
sentiva ancora nervoso ed eccitabile.
Da cinque anni non era più stato vittima di alcuna esplosione.
Quattro anni prima lui e Ford Prefect si erano separati, e siccome
Arthur da allora non aveva praticamente visto più nessuno, non era
stato più nemmeno insultato.
Tranne un’unica volta.
Era successo una sera di primavera, circa due anni prima.
Tornando alla sua caverna subito dopo il crepuscolo, aveva notato
diverse luci che lampeggiavano sinistre tra le nubi. Si era voltato con
in cuore l’eterna speranza dei naufraghi: vedere una nave.
Mentre guardava con ansia il cielo, una nave argentea e affusolata
era scesa in silenzio nell’aria calda della sera e aveva sganciato lunghe
zampe prensili di metallo, in una sorta di danza tecnologica.
Si era posata in terra dolcemente, e il lievissimo ronzio che aveva
emesso fino allora si era spento del tutto.
Da un portello era stata calata una scaletta.
Dentro si era accesa una luce.
4
Stagliata contro il tondo luminoso c’era una figura alta. La figura
aveva sceso la scala e si era piazzata in faccia ad Arthur.
– Sei un cretino, Dent – aveva detto semplicemente.
Era una creatura aliena, molto aliena. Aliena era la sua altezza
eccessiva, aliena la testa piatta, alieni gli occhi stretti come fessure,
alieno il vestito dorato dal colletto assurdo, aliena la pelle grigio–
verde, che aveva la caratteristica lucentezza che le pelli grigio–verdi
riescono a ottenere solo con l’uso paziente di saponi costosissimi.
Arthur aveva osservato lo sconosciuto con una certa perplessità.
L’altro l’aveva fissato dritto negli occhi.
Arthur, che all’inizio si era sentito il cuore pieno di speranza, dopo
la frase dell’alieno non era riuscito a dominare lo stupore, e nella sua
mente i pensieri più disparati si erano messi di colpo a contendere tra
loro per guadagnarsi il diritto all’uso delle corde vocali.
– Perc…? – aveva detto. – Cos…? – aveva aggiunto. – Ch…
chi…? – aveva precisato, piombando in seguito in un silenzio
spasmodico. Stare anni senza parlare con qualcuno produce questo
tipo di effetti.
L’alieno aggrottando la fronte aveva controllato una specie di
tabella che teneva in una delle mani lunghe e sottili.
– Sei Arthur Dent, vero? – aveva chiesto.
Arthur aveva annuito, incapace di proferire parola.
– Arthur Philip Dent? – aveva insistito l’alieno, con tono stridulo.
– Ehm… uh… ssì… ehm… uh – aveva confermato Arthur.
– Sei un cretino – aveva ribadito l’alieno. – Un deficiente
integrale.
– Uh… – aveva sussurrato Arthur, con disperazione. – Uh…
– Risparmiami queste stupidaggini – aveva ribattuto l’alieno, con
un ringhio rabbioso. Poi era risalito a bordo, scomparendo dietro il
portello. La nave si era richiusa e aveva emesso un ronzio sordo.
– Ehi, ehi! – aveva gridato allora Arthur, mettendosi a correre
verso di essa. – Ehi, aspetta un attimo! Che modi sono? Cos’è questa
fretta?
La nave aveva decollato leggera, scaricando a terra il suo peso
come fosse stato un mantello. Si era librata per breve tempo nel cielo
della sera, poi, sfrecciando tra le nubi e illuminandole, era scomparsa
ben presto dalla vista. Arthur, solo nella sua landa deserta, aveva
continuato ad agitarsi inutilmente e pateticamente.
– Ma come? – aveva continuato a gridare per un pezzo. – Ma
come, andarsene via così senza darmi il tempo di…? Torna qui e
prova a ripetere quello che hai detto poco fa!
Aveva continuato a saltellare qui e la finché le gambe non gli
avevano fatto giacomo giacomo, e a gridare finché i polmoni non gli
5
erano quasi scoppiati. Ma naturalmente non gli era arrivata nessuna
risposta.
La nave aliena era già negli strati più alti dell’atmosfera, pronta a
immergersi nel vuoto spaventevole che separa l’una dall’altra le poche
cose che ci sono nell’Universo.
Il suo occupante, l’alieno che si curava la pelle con saponi costosi,
si appoggiò allo schienale del sedile di comando. Si chiamava
Wowbagger l’Eterno Prolungato, ed era un essere che aveva uno
scopo preciso nella vita. Non un gran bello scopo, come lui stesso era
pronto ad ammettere, ma se non altro era uno scopo, e serviva a
tenerlo occupato.
Wowbagger l’Eterno Prolungato era, e di fatto è ancora, uno dei
pochi, pochissimi esseri immortali dell’Universo.
Chi è nato immortale sa per istinto come gestire la propria
immortalità, ma Wowbagger non faceva pane di questa categoria.
Anzi, era arrivato a odiare gli immortali per nascita, manipolo di
bastardi beoti. Lui era diventato immortale per sbaglio, a causa di uno
sfortunato incidente che aveva visto coinvolti un acceleratore di
particelle irrazionale, un pranzo liquido e un paio di elastici. I
particolari precisi dell’incidente non sono rilevanti, anche perché
nessuno è mai riuscito a riprodurre esattamente le circostanze che
diedero luogo all’avvenimento, e anzi, chi ci ha provato o è diventato
scemo, o è morto (e, in alcuni casi, prima è diventato scemo, poi è
morto).
Chiudendo gli occhi in un’espressione di tedio e stanchezza,
Wowbagger mise su un po’ di jazz sullo stereo della nave e pensò che
avrebbe potuto anche farcela a gestirsi la sua immortalità, se non fosse
stato per le domeniche pomeriggio.
All’inizio era stato divertente, se l’era spassata moltissimo, aveva
vissuto pericolosamente, corso rischi, guadagnato un mucchio di soldi
con investimenti a lungo termine e alto rendimento, e in genere goduto
del fatto di vivere infinitamente più a lungo di tutti gli altri comuni
mortali.
Alla fine però Si era accorto di non poter proprio reggere le
domeniche pomeriggio e quel terribile senso di svogliatezza che
comincia a instaurarsi verso le quindici, quando ci si rende conto di
avere fatto tutti i bagni e le docce che era possibile fare, di avere
fissato con aria vacua tutti gli articoli di giornale che era possibile
fissare (evitando accuratamente di leggere tutti i loro contenuti), di
non potere impedire alle lancette dell’orologio di avvicinarsi
inesorabilmente alle sedici, a quel momento fatidico che segna l’inizio
della lunga, tetra ora del tè dell’anima.
6
Così, a poco a poco, il disgusto si era insinuate in lui. I sorrisi
soddisfatti che faceva ai funerali del prossimo erano diventati sempre
più tiepidi, fino a scomparirgli dalla faccia. Aveva sentito crescere in
sé il disprezzo per l’Universo in genere, e in particolare per chi ci
abitava.
Era stato a quel punto che aveva concepito il suo proposito, un
proposito che in seguito lo aveva spinto a viaggiare in astronave da un
posto all’altro e che probabilmente avrebbe continuato a spingerlo per
il resto della sua interminabile esistenza.
Il proposito in sostanza era questo: insultare l’Universo.
Il che significava insultare tutti i suoi abitanti. Insultarli uno per
uno, con offese personali, e (un progetto audace, indubbiamente) in
ordine alfabetico.
Quando qualcuno, venuto a conoscenza del suo piano, obiettava
che l’impresa era pressoché impossibile, oltre che assurda, in quanto
troppa gente nasceva e moriva in continuazione, Wowbagger si
limitava a sfoderare uno sguardo e a dire: – Un uomo ha diritto a
sognare, no?
E così aveva messo in atto il suo piano. Aveva installato su
un’astronave costruita per durare a lungo un computer che era in
grado di rintracciare qualsiasi persona esistente, e anche di calcolare le
rotte complicatissime che bisognava seguire per raggiungerla.
Dopo avere insultato Arthur Dent, Wowbagger si preparò a uscire
con la sua nave dalla zona del sistema stellare Sol.
– Computer – disse.
– Son qua – garrì il computer.
– Dove si va adesso?
– Lo sto calcolando.
Wowbagger contemplò per un attimo le fantastiche gemme che
costellavano il cielo, miliardi e miliardi di mondi lucenti che
spruzzavano del loro chiarore l’oscurità infinita del Cosmo. Ognuno di
quei mondi era nel suo itinerario. Nella maggior parte di essi sarebbe
stato innumerevoli volte.
Si vide, nella sua missione, un po’ come un bambino intento a
congiungere puntini numerati per trarne una figura o una parola. Si
augurò che in qualche zona particolare dell’Universo il suo lavorio
incessante desse come risultato la lettura di una parolaccia, una
parolaccia volgare e irritante.
Il computer emise un piccolo segnale acustico per indicare che
aveva terminato i calcoli.
– Folfanga – disse, con un bip. – Quarto pianeta del sistema
Folfanga – continuò, con un altro bip. – Durata probabile del viaggio,
tre settimane – continuò ulteriormente, con un ennesimo bip.
7
– Lì – proseguì dopo un breve intervallo, – dovrai incontrare, se
non sbaglio, una lumaca della specie A–Rth–Urp–Hil–Ipdenu. Alla
quale, credo, hai deciso di dire: “stupida faccia da deretano”.
Wowbagger emise un grugnito e guardò di la dall’oblò la maestà
del Creato.
– Penso che faro un sonnellino – disse, e aggiunse poco dopo: –
Che canali tivù prendiamo nelle prossime ore?
Il computer emise un bip. – Cosmovid, Supercotto e Telescatola
Cranica – disse.
– C’è qualche film che non abbia visto trentamila volte?
– No.
– Uhm.
– Ci sarebbe Terrore nello spazio. Quello l’hai visto solo
trentatremilacinquecentodiciassette volte.
– Svegliami alla seconda bobina.
Il computer fece un bip.
– Dormi bene – disse.
La nave continuò a filare silenziosa nella notte.
Sulla Terra, nel frattempo, pioveva a catinelle, e Arthur Dent se ne
stava seduto tutto sfigato nella sua caverna. Era una delle sere più
schifose della sua vita. Non faceva che pensare a quello che avrebbe
potuto dire all’alieno, e mentre lo pensava non faceva che schiacciare
mosche. Le quali a loro volta stavano trascorrendo una delle sere più
schifose della loro vita.
Il giorno dopo, per consolarsi, Arthur si fabbricò una borsa con
una pelle di coniglio. E lì mise tutte le cose che aveva vicino, tranne
naturalmente le mosche.
8
2
La mattina di cui s’è parlato all’inizio, di due anni successiva a quella
in cui Arthur si fabbricò una borsa, era tersa e mite. Arthur, uscendo
dalla caverna (che avrebbe continuato a chiamare casa finché non le
avesse trovato un nome migliore o finché non avesse trovato una
caverna migliore) si sentì di ottimo umore, nonostante il consueto urlo
di angoscia con cui si era svegliato. Si strinse intorno al corpo la
vestaglia sbrindellata e salutò con un sorriso il Sole.
Nell’aria c’era un profumo di fieri, la brezza soffiava lieve
sull’erba alta, gli uccelli comunicavano tra loro con allegri cinguettii,
le farfalle volteggiavano con grazia, e tutta la natura nel suo
complesso sembrava determinata a rendersi più piacevole che mai.
Non era però lo scenario bucolico a infondere in Arthur il buon
umore. Il buon umore gli era venuto perché aveva appena avuto una
magnifica idea, un’idea che l’avrebbe aiutato a sopportare felicemente
il terribile senso di isolamento, gli incubi notturni, gli insuccessi
conseguiti dai suoi sforzi di orticoltore, la mancanza di un futuro e la
vacuità della vita su quella Terra preistorica. L’idea, detta in parole
povere, era di impazzire.
Sorrise di nuovo e addentò la zampa di coniglio avanzata dalla
cena della sera prima. Masticò felice, poi decise di annunciare
ufficialmente la sua decisione.
Si alzò in piedi e guardò in faccia il mondo, ovvero i campi e le
colline. Per aggiungere ulteriore peso alle proprie parole si ficcò tra la
barba l’osso del coniglio. Quindi allargò le braccia in un gesto
solenne.
– Intendo impazzire! – annunciò.
– Buona idea – disse Ford Prefect, scendendo dal masso su cui si
era seduto.
Arthur sentì un terremoto nel cervello. Le mascelle gli si serrarono
e aprirono meccanicamente, senza proferire suono.
– Io per un po’ sono impazzito – disse Ford, – e mi ha fatto un
sacco di bene.
Arthur stralunò gli occhi.
– Vedi? – disse Ford.
9
– Dove sei stato? – lo interruppe Arthur, riuscendo finalmente a
esprimere un concetto interrogative.
– In giro – disse Ford. – Un po’ di qua e un po’ di la. – Fece un
sorriso volutamente irritante. – A un certo punto ho semplicemente
sganciato il cervello. Ho pensato che se il mondo mi avesse rivoluto
indietro mi avrebbe chiamato. Cosa che ha fatto.
Tirò fuori la sub–Eta sensomatic da un sacco spaventosamente
logoro e consunto.
– O almeno – disse, – ho creduto che mi richiamasse indietro.
Questa macchinetta si è messa a emettere segnali. – La scosse. – Se si
è trattato di un falso allarme, provvederò a impazzire di nuovo.
Arthur scrollò la testa e si sedette. Poi alzò gli occhi.
– Credevo che tu fossi morto… – disse.
– Anch’io l’ho creduto, per un po’ – disse Ford. – Poi, per un paio
di settimane, mi sono convinto di essere un limone. Mi divertivo a
saltare in continuazione dentro e fuori da un gin tonic.
Arthur si schiarì la voce due volte.
– Dove diavolo hai…?
– Trovato un gin tonic? – disse allegro Ford. – Be’, ho trovato un
laghetto che era convinto di essere un gin tonic, e io ci saltavo dentro
in continuazione. Oddio, che fosse convinto di essere un gin tonic lo
pensavo io, naturalmente. Ma potrei essermi sbagliato. Forse era solo
la mia immaginazione.
Ford esibì un sorriso così folle che avrebbe indotto a fuggire il più
temerario degli uomini e tacque in attesa della reazione di Arthur.
Ma Arthur non gli diede quella soddisfazione.
– Continua – disse tranquillamente.
– Vedi – disse Ford, – il fatto è che non ha senso diventare matti
per cercare di impedire a noi stessi di diventare matti. Tanto vale
cedere alla follia e serbare la sanità mentale per i momenti migliori.
– E adesso tu saresti nella versione sana? – chiese Arthur. – Te lo
chiedo così, per pura informazione, naturalmente.
– Sì. E, sai, sono andato in Africa – disse Ford.
– Davvero?
– Davvero.
– Com’era?
– Questa è la tua caverna, eh? – chiese Ford, senza rispondere.
– Ehm, sì – disse Arthur. Si sentiva strano. Dopo quasi quattro
anni di isolamento totale era così felice di rivedere Ford, che avrebbe
quasi urlato dalla gioia. Bisognava però dire che Ford era una persona
alla quale riusciva quasi subito di irritare gli altri con in suoi discorsi.
– Bella, molto bella – disse Ford, della caverna. – Chissà come la
odi.
10
Arthur non si prese neanche la briga di rispondere.
– L’Africa era molto interessante – disse Ford, – e durante il tempo
in cui sono stato lì mi sono comportato in modo decisamente strano.
Fissò un punto vago, in lontananza.
– Sono diventato crudele con gli animali – spiegò allegramente. –
Ma l’ho fatto solo per hobby, capisci.
– Certo – disse Arthur, diffidente.
– Non ti voglio infastidire raccontandoti i particolari, perché
potrebbero…
– Sì?
– Turbarti. Ma forse t’interesserà sapere che sono l’unico
responsabile dell’evoluzione un po’ insolita di quell’animale che nei
secoli a venire sarà chiamato giraffa. Poi ho anche provato a volare.
Non ci credi?
– Raccontami – disse Arthur.
– Dopo. Per ora ti dico solo che secondo la Guida…
La che?
– La Guida. La Guida Galattica per gli Autostoppisti. Non te la
ricordi?
– Sì. Ricordo di averla gettata nel fiume.
– Già, ma io l’ho ripescata.
– Non me l’avevi detto.
– Non volevo che tu la rigettassi via di nuovo.
– Ragionamento abbastanza plausibile – ammise Arthur.
Secondo la Guida?
– Che?
– Stavi dicendo, secondo la Guida…
Ah sì, secondo la Guida esiste una precisa arte del volo, o forse
sarebbe meglio chiamarla una tecnica. Questa tecnica consiste
nell’imparare a buttarsi giù dall’alto evitando di colpire il terreno. –
Ford abbozzò un sorriso, poi indicò i pantaloni logori all’altezza delle
ginocchia e mostrò i gomiti, che erano tutti scorticati e sbucciati,
– Finora non si può dire che me la sia cavata brillantemente –
disse. Allungò la mano verso Arthur e aggiunse: – Sono molto
contento di rivederti, amico mio.
Arthur scrollò la testa in preda all’emozione e allo stupore.
– Sono anni che non ti vedo – disse. – Anni che non vedo nessuno.
Mi ricordo a malapena come si fa a parlare. Continuo a dimenticarmi
le parole, sai? Allora cerco di mantenermi in esercizio, e lo faccio
parlando con… con quelle cose che se tu parli con loro la gente ti
ritiene pazzo. Come Giorgio III.
– Quali cose? I re?
摘要:

DouglasAdamsLAVITA,L’UNIVERSOETUTTOQUANTO(Life,theUniverseandEverything)©1982DouglasAdams©1984ArnoldoMondadoriEditoreS.p.A.,MilanoTraduzionediLauraSerraURANIAn.973–24giugno198431Comesempre,neldormiveglia,fuassalitodalricordodidovefossee,conunsincero,autenticogridod’orrore,ArthurDentsisvegliò.Così,co...

展开>> 收起<<
Douglas Adams - La vita, l'universo e tutto quanto - Urania.pdf

共168页,预览34页

还剩页未读, 继续阅读

声明:本站为文档C2C交易模式,即用户上传的文档直接被用户下载,本站只是中间服务平台,本站所有文档下载所得的收益归上传人(含作者)所有。玖贝云文库仅提供信息存储空间,仅对用户上传内容的表现方式做保护处理,对上载内容本身不做任何修改或编辑。若文档所含内容侵犯了您的版权或隐私,请立即通知玖贝云文库,我们立即给予删除!
分类:外语学习 价格:5.9玖币 属性:168 页 大小:324.25KB 格式:PDF 时间:2024-12-24

开通VIP享超值会员特权

  • 多端同步记录
  • 高速下载文档
  • 免费文档工具
  • 分享文档赚钱
  • 每日登录抽奖
  • 优质衍生服务
/ 168
客服
关注