Shaun Hutson - Assassin

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SHAUN HUTSON
ASSASSIN
(Assassin, 1988)
RINGRAZIAMENTI
Desidero ringraziare le seguenti persone per il loro aiuto prima, durante e dopo la stesura di questo
romanzo.
Grazie a Bob Tanner (avevo detto che potevo farne a meno, Bob...). A Ray "fateli fuori tutti" Mudie
(l'Angus Young della WH Allen). A Peter "direttore tecnico" Williams. Al mioeditor, Bill "Amichevoli
Suggerimenti" Massey (la prossima volta ti gambizzo, okay?). Ringraziamenti extraspeciali al "Mucchio
Sel-vaggio" (l'ufficio vendite della casa editrice WH Allen): venim-mo, vedemmo, fregammo lo spazio
sugli scaffali a tutti gli altri. Per essere più precisi, un grazie a tutti quelli della WH Allen dal vostro
zoticone di casa.
Grazie a Dennis Poole e a tutti quelli di Tiptree (sì,tornerò). Molti ringraziamenti a Mick Wall (non tanto
un "eroe di Market Square", semmai una "superstar del piccolo schermo". Te ne de-vo ancora una,
amico). A Doc Doom e a "Krusher" (gli unici uo-mini di mia conoscenza che abbiano raggiunto
l'immortalità at-traverso la morte... e il Mescal). A Stella Clifford diMonsters of Rock (per avermi
concesso le mie periodiche intrusioni). Grazie anche aKerrang.
Grazie a Bruce, Steve, Dave, Adrian e Nicko (non solo sempli-ce, vecchio "Ferro", ma il miglior metallo
in assoluto. Alla vo-stra). A tutta la gente di Smallwood Taylor, specialmente a Terri N Berg (adesso non
hai più scuse, devi leggerlo!). Molti ringra-ziamenti anche a Wally Grove (Passate il Sei ai Suonatori).
Ad Allan "È" Trotter (un formidabile aggiustatutto.Questo non lasciarlo sul cofano dell'automobile. Prima
fallo vedere ai tuoi amici). A Gareth "stress da lavoro" James, John Gullidge, Phil "Grande Schermo"
Nutman, Brian "la prossima volta sei morto" Baker, John Hellings, Ray "un altro giro di arpa" Pocock,
Bill Young e Andy Wint (non ho mai creduto di doverpen-sare quando mi intervistano, sadici!). Grazie
anche a Ian "Mad Max" Austin.
Ringraziamenti indiretti a Guns 'n Roses, Ronnie James Dio e Sword. E molte grazie alla Liverpool FC.
E per finire, come sempre, un grazie extraspeciale alla mia mamma e al mio papà, per tutto, e
ovviamente a Belinda, che è stata con me quando avevo bisogno di lei. Del resto, è sempre con me.
Questo romanzo è stato scritto su una macchina Silverette, con carta per dattilografia Croxley (e se non
basta questo a farmi ave-re gratis una nuova macchina per scrivere e un paio di risme di carta, non so
proprio cosa potrebbe bastare...)
Molte grazie a tutti coloro che mi hanno dato una mano. Non saprete mai quanto io vi sia grato.
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Shaun Hutson
Meglio scomparire gradualmente
che svanire d'un colpo.
Prendi l'apparenza del fiore innocente,
ma sotto vi sia la serpe.
MACBETH
Il catalizzatore
Il prete era pazzo.
Gli uomini che lo spinsero sul retro dell'ambulanza avevano già visto il volto della follia, e lo riconobbero
nei suoi tratti smarriti.
Lui urlò, imprecò, minacciò.
Tutto inutile.
Li avverti che si stavano macchiando di eresia. Una parola che nessuno di loro aveva mai sentito uscire
dalle labbra di qualcuno. Una parola adatta ad anni ormai lontani. Alla superstizione.
E mentre il prete lottava per sottrarsi alla stretta e tornare alla sua chiesa abbandonata, loro scoprirono
che il termine "supersti-zione" circolava con una nuova intensità nelle loro menti.
Lui disse che stavano commettendo un errore, che profanavano un Terreno Sacro, che distruggevano
qualcosa di incomparabile valore, ma loro non gli diedero retta. Il vecchio prete era pazzo. E chi, se non
un pazzo, avrebbe potuto vivere per gli ultimi otto mesi in una chiesa cadente dell'East End londinese, con
l'unica compa-gnia di umidità, muffa e topi? Le vetrate erano fracassate, i buchi coperti da assi qua e là,
ma il prete non se n'era andato.Non posso andarmene,disse mentre lo trascinavano via dal suo
rifugio verso il veicolo che aspettava. E aggiunse che loro non dovevano entrare in chiesa, non
dovevano disturbare ciò che la chiesa conteneva.
Quando gli dissero che i resti della chiesa erano destinati alla de-molizione, che lì sarebbe sorto un
quartiere residenziale, il prete diventò ancora più incontrollabile. Si lasciò prendere da un attac-co di furia
che per gli uomini in uniforme non fu facile controllare. Si mise a correre verso la chiesa, urlando parole
che per loro non avevano alcun senso.
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Qualcuno propose di iniettargli un sedativo, ma uno degli infer-mieri non si fidava degli effetti che
medicinali troppo forti poteva-no avere su un uomo di quell'età, in condizioni di salute tanto pre-carie.
Così, lo lasciarono urlare.
Gli lasciarono gridare che era il custode di qualcosa di prezioso.
Gridare che faceva la guardia a un segreto.
Che lui, e lui solo, conosceva quel segreto.
Che lui, in quel luogo fetido e infestato di parassiti che un tempo era stato un luogo di culto, conservava il
femore di un santo.
Uno degli infermieri, sentendo quegli assurdi vaneggiamenti, ri-dacchiò fra sé.
Rise alle parole del prete, quando il pazzo disse che il femore poteva ridare la vita ai morti. Che quegli
uomini, quei costruttori edili che volevano distruggere la sua casa, avrebbero sradicato an-che un potere
che veniva direttamente da Dio.
Il potere di ridare la vita ai morti.
Il prete doveva riavere il femore.
Doveva averlo. Conservare il potere. Custodire il segreto.
Lo legarono alla barella e lo caricarono sull'ambulanza, per im-pedirgli di farsi del male da solo; poi
ripartirono. Uno degli infer-mieri restò accanto al prete, continuò ad ascoltare i vaneggiamenti di quel
pazzo.
La chiesa non doveva essere distrutta.
Non doveva essere...
Non doveva...
Non...
Pochi minuti dopo, il prete era in stato di incoscienza. Aveva sgranato gli occhi per un secondo, poi il
suo petto si era sgonfiato di colpo, come se una pompa avesse risucchiato dal suo corpo tut-ta l'aria che
conteneva.
E nonostante gli sforzi dell'infermiere, il prete era morto prima di raggiungere l'ospedale.
Il giorno dopo, l'impresa edile iniziò i lavori.
Nel giro di una settimana, la chiesa e tutto ciò che essa conteneva erano polvere.
Martedì 3 settembre
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Prologo
Sembrava un campo di battaglia.
Fitte nubi di polvere e fumo correvano come banchi di nebbia tossica su un paesaggio devastato. Il
rombo poderoso degli edifici che crollavano si mischiava di tanto in tanto al suono delle esplosioni e
all'onnipresente sferragliare dei cingoli dei caterpillar.
Ma non era una guerra. Era distruzione organizzata. Non le ecatombi caotiche e casuali prodotte da un
conflitto, ma uno schema accuratamente studiato, pensato e pianificato da esperti, e ora eseguito da un
esercito di civili, non di uomini in uniforme.
Nella zona residenziale dell'East End nota come Langley Towers esistevano un tempo tre grattacieli. Tre
grandi edifici desti-nati a ospitare fino a un migliaio di persone. Erano spuntati nel paesaggio di Londra
come tanti altri grattacieli prima di loro, puntati verso il cielo come indici accusatori. Tutt'attorno erano
stati aperti negozi, persino una discoteca, ma gli inquilini dei grattacieli, più che pensare a come occupare
il tempo libero, ave-vano dovuto preoccuparsi dei difetti strutturali degli edifici. In-numerevoli
segnalazioni di crepe che si aprivano nei muri aveva-no inondato gli uffici comunali di zona, e alcune
erano state spe-dite dopo meno di un mese dall'arrivo degli inquilini; ma gli im-piegati comunali, come è
loro abitudine, avevano deciso di igno-rare le lamentele. Quando alla fine era crollata la tromba delle
scale del secondo grattacielo, erano morte cinque persone.
Nessuno sapeva come fosse successo. L'impresa costruttrice non lo sapeva. Gli architetti erano
esterrefatti. Le lamentele arri-vate in passato vennero imboscate per evitare situazioni imbaraz-zanti.
Immediatamente, era stata presa la decisione di trasferire al-trove gli inquilini e demolire gli edifici. E poi,
i proprietari del terreno avevano capito quanto fosse saggio vendere a qualcuno che avrebbe costruito
altre case.
Così erano arrivati i demolitori.
Scavatrici e altri veicoli presero ad aggirarsi fra le tonnellate di macerie d'acciaio e cemento, come grandi
dinosauri di metallo di un nuovo, surreale mondo. Uomini in tuta gialla sciamarono sul-le macerie come
termiti; però il loro compito era distruggere, non costruire. Altri uomini, in tuta bianca, restarono a
guardare da lontano l'abbattimento dei grattacieli, senza essere nemmeno sfiorati dalla sporcizia e dai
detriti della devastazione che aveva-no ideato.
La grande sfera della gru si abbatté sul fianco di uno degli edi-fici, squarciando la pietra come fosse stata
legno compensato. Ri-tirandosi dal grattacielo, la palla di metallo portò con sé fram-menti dell'interno del
palazzo, pezzi di travi che pendevano dalla sfera come intestini metallici.
Ci fu una forte esplosione quando uno degli uomini in tuta bianca premette un pulsante della piccola
consolle che teneva in mano. Mattoni furono scaraventati in tutte le direzioni dalla for-za dello scoppio, e
il terzo grattacielo crollò come un castello di carte. Centinaia di tonnellate di cemento e acciaio piovvero
sul terreno, aggiungendosi ai cumuli di macerie che volteggiavano nell'aria come scogli erosi dalla marea.
Gli edifici più piccoli come la discoteca, il supermarket e uno o due degli altri negozi che un tempo
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servivano gli inquilini delle al-te costruzioni verticali erano ancora intatti. Le loro finestre erano in frantumi,
gli interni sventrati, ma le facciate esterne non erano state toccate dalle feroci attenzioni di uomini e
macchine il cui unico obiettivo era sradicare quell'ultima testimonianza della stu-pidità dell'architettura
moderna. Due anni prima, erigere il trio di grattacieli era costato più di cinquanta milioni di sterline. Più di
uno fra i demolitori pensava che sarebbe stato altrettanto sen-sato gettare tutti quei soldi in una fornace.
Gli edifici erano stati costruiti troppo in fretta, scavalcando troppe norme di sicurezza, ma era stata
necessaria la morte di cinque persone per dimostrare l'esistenza di scelte di fondo sbagliate. Comunque,
cinque vite valgono ben poco nel mondo della speculazione edilizia.
E come sarebbero state le nuove case destinate a sorgere lì? Molto belle, molto accoglienti, adatte a
chiunque. A chiunque avesse un reddito di almeno mezzo milione di sterline l'anno. L'East End si stava
spaccando in due. Si stava creando una linea di divisione fra poveri e ricchi, fra chi aveva, e chi non
aveva nemmeno uno straccio di speranza. I ricchi diventavano sempre più ricchi; i poveri, sempre più
poveri.
E sempre più risentiti.
Un bulldozer avanzò tranquillo sul terreno devastato, spingen-do avanti una montagna di macerie. I suoi
cingoli graffiarono le fondamenta del primo grattacielo.
Le fondamenta erano molto profonde, ma gli esplosivi sistema-ti nei punti strategici dagli uomini in tuta
bianca le avevano messe a nudo.
Fumo e polvere si mischiavano alle esalazioni bluastre dei gas di scarico del bulldozer.
Cinque o sei scavatrici erano all'opera sui resti sventrati degli edifici. Sollevavano tonnellate di detriti e le
scaricavano sui ca-mion in attesa.
La grande palla di ferro continuò a ondeggiare avanti e indie-tro.
La distruzione proseguì.
Nessuno vide la mano.
Sporgeva tra le crepe delle fondamenta del primo grattacielo, chiazzata di verde qua e là, coperta di
polvere e sporcizia. E quan-do il terreno tremò, gli squarci nel cemento si fecero più larghi.
Lentamente, apparve il braccio attaccato alla mano.
Nessuno se ne accorse.
Come nessuno vide le dita della mano prima piegarsi, e poi chiudersi a pugno.
Parte prima
Dove stanno i maggiori pericoli? Nella pietà.
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NIETZSCHE
Si sta scatenando l'inferno,
Nelle strade nasce un mondo completamente nuovo...
KISS
1
Il martelletto scese con un colpo forte. Il suono echeggiò tra le pareti a pannelli di legno dell'aula numero
uno dell'Old Bailey.
Ci fu solo una breve pausa nel frenetico mormorio del pubbli-co, così Sua Eccellenza il giudice Valentine
strinse le dita sul martelletto di legno e picchiò parecchie volte. Continuò anche dopo che i mormorii si
furono placati.
Il giudice si guardò attorno, astioso. I suoi occhi corsero dal banco dei testimoni alla galleria riservata al
pubblico, poi agli av-vocati e ai cancellieri schierati davanti a lui come impresali di pompe funebri con la
parrucca.
Nei suoi trentatré anni come giudice dell'Alta Corte, Valentine aveva presieduto a molti processi; ma per
quanto ricordasse, nes-suno aveva mai scatenato tanto interesse di pubblico e di media. Il pubblico era
stato avvertito in anticipo dalla stampa che il caso presentava aspetti particolarmente ripugnanti. Era
bastato quello perché la galleria per il pubblico si riempisse tutti i giorni. Al mo-mento, il processo era
arrivato al terzo giorno. Valentine si aggiu-stò la parrucca ed emise un rumoroso sospiro. Si aspettava
altre esplosioni di commenti di lì a poco. La deposizione che aveva dato il via alle ultime, indignate
chiacchiere stava per proseguire.
— Se ci saranno altre interruzioni, non avrò scelta. Dovrò fare sgomberare l'aula — disse il giudice. Poi
guardò l'avvocato che aveva di fronte, un uomo alto, dal viso esile, e annuì. — Lei può continuare, signor
Briggs.
Thomas Briggs fece un cenno d'assenso e si avvicinò al banco dei testimoni. La sua toga svolazzò come
le ali nere di una grossa cornacchia.
La persona al banco lo scrutò impassibile, con occhi che somi-gliavano a punte di zaffiro, calmi,
tranquilli, e freddamente cal-colatori.
L'avvocato dell'accusa guardò i suoi appunti, poi puntò lo sguardo sull'imputato.
— Sapeva che la signora Donaldson era ancora viva quando le ha tagliato i seni?
Le parole uscirono dalla sua bocca in un tono neutro, privo di inflessioni, e proprio per questo furono
tanto più raggelanti.
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Il pubblico ricominciò a mormorare, ma il giudice lo zittì con tre colpi di martelletto.
— Lo sapeva? — ripeté Briggs, appoggiandosi all'orlo del ban-co dei testimoni.
— Lo sapevo — rispose Jonathan Crawford, indifferente. — Si è messa a urlare quando ho cominciato
a tagliare.
— Però lei ha continuato fino a recidere dal corpo entrambi i seni? — disse Briggs, distogliendo gli
occhi da Crawford per un attimo.
— Sì.
I mormorii ricominciarono. Altri colpi secchi di martelletto.
Il silenzio scese di nuovo come un pesante sudario. Solo la voce dell'avvocato e dell'imputato
spezzavano l'opprimente mutismo dell'aula.
— Perché ha scelto proprio quella forma di mutuazione? Ave-va già pugnalato la signora Donaldson. —
L'avvocato esitò, con-sultò un'altra volta i suoi appunti. — L'aveva già pugnalata sedici volte, per la
precisione. Non le bastava?
— Aveva dei figli — disse Crawford. — Bambini ricchi che succhiavano tette ricche. — Ridacchiò.
— Ma lei aveva già ucciso anche i bambini — disse in tono roco Briggs. Trovava sempre più difficile
usare il suo solito distacco professionale in quel caso. Crawford era arrogante in maniera quasi
insopportabile, e quell'atteggiamento cominciava a scon-volgere anche l'avvocato dell'accusa.
— Li abbiamo uccisi per primi per farli stare zitti — disse Crawford. — Lo sa quanto casino possono
fare i bambini, no?
Nella voce c'era una nota di condiscendenza. L'avvocato la no-tò immediatamente.
— Lei è entrato nella camera da letto dei figli dei Donaldson — cominciò Briggs. Alzando la voce, si
avviò verso la giuria. — Dove dormivano Melissa e Felicity, rispettivamente di quattro e due anni. —
L'avvocato estrasse diverse fotografie in bianco e ne-ro da una cartella e le passò al primo giurato. —
Poi cosa ha fatto?
— Le abbiamo uccise.
— Le ha uccise — ripeté Briggs. Sulla sua mascella prese a pul-sare un groviglio di muscoli. — Però
prima ha tagliato la lingua a Melissa e ha strappato gli occhi a Felicity con un coltello da cuci-na, esatto?
— Gesù — gemette qualcuno sul fondo dell'aula.
— Esatto? — sbottò Briggs, girandosi a fissare l'imputato.
— Ha presente le tre scimmiette? Non vedo, non parlo... — sorrise Crawford.
— Risponda alla domanda — intervenne il giudice Valentine, scrivendo qualcosa sul foglio che aveva
davanti.
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— Sì, le abbiamo uccise — disse Crawford, scostando dal col-letto della camicia i lunghi capelli. —
Come abbiamo ucciso gli al-tri fottuti parassiti.
— Devo presumere che per "parassiti" lei intenda le altre per-sone che è accusato di avere assassinato?
— I bastardi ricchi, sì. Secondo lei, quanta gente è morta per-ché quelli potessero fare iloro milioni?
— I Donaldson erano tutt'altro che milionari. Il signor Donaldson possedeva una piccola fabbrica a
Woolwich.
— Dalla piccola ghianda... — sibilò Crawford, piano.
— E questo era un motivo sufficiente per macellare la signora Donaldson e le sue due bambine?
Immagino che dobbiamo rin-graziare il cielo se il signor Donaldson è sfuggito a questo bagno di sangue.
— L'avvocato si girò verso il giudice. — L'accusa non chiamerà il signor Donaldson a testimoniare,
Vostro Onore. Al momento si trova sotto sedativi.
Valentine annuì.
— Perché ha scelto la famiglia Donaldson? — continuò Briggs, riportando l'attenzione su Crawford.
— Avevano i soldi — rispose il giovane imputato. — Doveva-mo pur cominciare da qualche parte. —
Di nuovo, quel sorriso sulle sue labbra.
— Con quel "dovevamo" sta alludendo alle altre persone che l'hanno aiutata in questi omicidi?
— Ci sono altri oltre a me, sì.
— Però lei ha deciso di nominarsi capo di questa... "lotta di classe", per usare la sua definizione? —
Briggs alzò ancora una volta la voce. — Lei ha dichiarato guerra ai ricchi o, come li chia-ma lei, ai
"nemici dello stato". È esatto?
— Stiamo combattendo una lotta di classe, sì, però non sono stato io a nominarmi capo. Sono stato
scelto.
— In forza del suo carisma naturale e delle sue capacità orga-nizzative, presumo? — sibilò Briggs,
incapace di frenare il sarca-smo nella voce.
— È più che possibile — sorrise Crawford.
— E questa... guerra contro i ricchi deve consistere in una se-rie di brutali omicidi di uomini, donne e
bambini che ai suoi occhi hanno la sola colpa di essere tanto fortunati da possedere i mezzi per
un'esistenza agiata? La stessa esistenza che forse in segreto piacerebbe anche a lei, signor Crawford?
— Sono stati uccisi perché erano parassiti. Hanno fatto i soldi sfruttando la gente comune. Gente che
non era in grado di resti-tuire i colpi.
— Ah, vedo — esclamò Briggs, battendosi la fronte con la mano. — Lei si è assunto il ruolo di angelo
vendicatore. Lei e i suoi seguaci avete deciso di fungere da carnefici a nome di tutte le per-sone meno
fortunate della signora Donaldson. La signora Donaldson che ha implorato di risparmiare la vita alle sue
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bambine. Che ha implorato di non essere uccisa, ma è finita in questo mo-do. — Briggs ruggì l'ultima
frase, poi scaraventò una fotografia in bianco e nero della vittima sul banco degli imputati, sotto gli occhi
di Crawford.
Il giovane prese la foto, diede un'occhiata, corrugò la fronte.
— Non le somiglia molto — disse, spingendo la fotografia ver-so l'avvocato. Il quadrato di carta cadde
dal banco degli imputati, sul pavimento.
Il silenzio venne interrotto da un insistente mormorio di voci, subito zittito dal martelletto.
Sul fondo dell'aula, l'ispettore Peter Thorpe diede una gomita-ta al suo compagno e indicò con un cenno
la porta.
Il sergente Vic Riley si alzò. I due scivolarono fuori dall'aula.
In corridoio, Thorpe estrasse dalla tasca della giacca un pac-chetto di Rothman e offrì una sigaretta a
Riley. L'altro accettò. Poi, vedendo che l'accendino di Thorpe non funzionava, cercò in tasca la scatola
dei cerini.
I due si misero a fumare di gusto. Riley si appoggiò alla parete. Aveva trentasette anni, tre meno del suo
superiore, anche se era lui ad avere già qualche chiazza grigia nei capelli.
— Lotta di classe un cazzo — disse Thorpe. — Quello è pazzo sputato.
— Lui e i suoi amici. Siano chi siano — mormorò Riley.
— Probabilmente sarà gente come i due che abbiamo già mes-so dentro — disse Thorpe, aspirando
un'altra boccata di fumo. — Cristo, quel bastardo di Crawford è un osso duro.
— Nessuno riuscirà a salvargli il culo, vedrai — disse Riley.
— Sì, può darsi. Ma anche se sistemiamolui, dobbiamo sem-pre scoprire i suoi amici. — Thorpe buttò
la sigaretta e la spense sotto la scarpa. — Prima che qualcun altro faccia la fine della si-gnora Donaldson
e delle sue bambine.
2
— Garantito che qui siamo al sicuro?
Danny Weller si tirò il lenzuolo sul collo e lanciò un'occhiata al soffitto dell'edificio. Attraverso uno dei
buchi vedeva il cielo del-la sera costellato di stelle, come se qualcuno avesse gettato dei lu-strini su un
velluto nero.
— Come sarebbe a dire, al sicuro? — ribatté Sean Robson. — Se hai paura che ci trovino gli sbirri...
— No, non gli sbirri. Insomma, questo posto fottuto non ci ca-drà mica addosso, per caso?
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Robson scosse la testa e si pulì il naso col dorso della mano. Studiò il grumo di mucosa per un attimo,
poi lo spiaccicò sui cal-zoni.
— Stanno buttando giù i grattacieli — assicurò al suo com-pagno. — Non gliene frega niente di questo
posto. E comun-que, per una notte andrà bene. È sempre meglio che dormire per strada.
Nel buio, scrutò l'interno del supermarket. Il pavimento era coperto da uno spesso strato di polvere e
detriti; il tetto aveva bu-chi grossi così, e quasi tutti i vetri delle finestre erano fracassati, ma se non altro,
nessuno li avrebbe disturbati. Guardò gli scaffali vuoti e sentì brontolare lo stomaco. Immaginò gli scaffali
colmi di generi alimentari, come erano stati un tempo, ma i morsi della fame lo convinsero che era meglio
lasciare perdere quelle fanta-sie. Si concentrò sulla bottiglia di Haig che stringeva in mano. Bevve un
lungo sorso, poi passò la bottiglia all'amico, che non si fece pregare. Anzi, si mise a bere anche troppo.
Robson allungò la destra per strappargli la bottiglia.
— Vacci piano — sbottò. — Deve durare.
Welter studiò l'altro per un istante, poi si leccò le labbra e annuì. Aveva ventinove anni, tre meno di
Robson. Tutti e due era-no disoccupati da cinque anni, e alcolizzati da un po' di più. Non avevano una
casa forse da tre anni. Avevano tirato avanti alla meno peggio, chiedendo la carità, rubando, e, in rare
occasioni, accettando lavori pesanti che offrivano come massima attrattiva un pasto caldo, più che uno
stipendio. Comunque, tutte le volte che avevano guadagnato qualcosa, si erano affrettati a spenderlo in
bottiglie.
Robson, in particolare, era pronto a tutto per un goccio di whisky. Sapeva che il liquore lo stava
distruggendo, che gli divo-rava le cellule cerebrali e il fegato, ma non gliene importava nien-te. Per lui,
ormai, era solo questione di tempo. Il cancro a un pol-mone lo stava uccidendo lentamente da otto mesi;
si trattava solo di vedere se il whisky sarebbe arrivato prima del cancro. L'alcol o la malattia? Per lui, non
faceva alcuna differenza.
Aveva conosciuto Weller due anni prima a Wormwood Scrubs. Lui doveva scontare sette giorni di
carcere per disturbo della quiete pubblica; Weller, invece, si era beccato due mesi per per-cosse
aggravate: aveva lavorato di coltello sul proprietario di un negozio di liquori che si era rifiutato di servirlo.
Il rapporto che esisteva fra i due uomini era curioso. Non ave-va nulla di sessuale, anche se all'inizio
Robson si era chiesto se il suo compagno non fosse un po' frocio. Non esisteva un modo mi-gliore per
descriverlo: aveva l'aria del frocio. Il suo volto era completamente liscio, glabro, al punto da spingere
Robson a du-bitare che avesse mai avuto bisogno di un rasoio. E i lineamenti erano dolci, quasi femminili.
Però Weller non aveva mai fatto nessuna avance esplicita, e Robson gliene era grato. Del resto, se ci
avesse provato anche una sola volta... Robson strinse le dita sulla bottiglia e bevve un altro sorso.
Weller sapeva ben poco dell'altro, a parte il fatto che in passa-to era stato sposato. Il matrimonio era
andato in pezzi, e Robson era stato sbattuto fuori di casa dopo avere picchiato ripetutamente la moglie.
Weller era sempre stato consapevole delle capacità di violenza di Robson, e le aveva viste in azione più
di una volta. Temeva il suo compagno più di quanto lo rispettasse, ma era pronto ad accettarne il
carattere volubile.
Aveva sofferto la solitudine anche troppo, e persino la compa-gnia di un uomo come Robson era
preferibile alla mancanza as-soluta di ogni rapporto umano. Sapeva che Robson stava moren-do, ma non
osava immaginare la propria vita da solo, dopo la scomparsa del compagno. Solo in quel momento,
vedendo Robson che tossiva e sputava sangue, Weller pensò a lui con qualco-sa di simile alla pietà.
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摘要:

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