Poul Anderson, Urania Anni 60 I Proteiformi

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Dopo un breve crepuscolo, la notte venuta
dall’Atlantico
dilagò sul mondo.
Alcune luci si
accesero nella città,
ma la maggior
parte di essa
rimase nelle
tenebre. I punti
luminosi erano più
numerosi in cielo
che sulla Terra,
quando le stelle
s’accesero.
Sua Grandezza
Intelligenza
Suprema. Signore
del Sistema Solare,
aprì la finestra, si
appoggiò i gomiti
per contemplare le
costellazioni e
respirare l’aria
calda e pesante che
arrivava dalle
illimitate
profondità del
Brasile.
“Che magnifico universo” pensò “Che
meraviglioso pianeta, la Terra!” merita
davvero che si combatta per lei, per
conquistarla e tenersela, come si farebbe
per un’amante molto cara!”
non udiva che il brusio leggero e un poco
triste del vento; dovunque al disotto di lui,
regnavano silenzio e solitudine.
Sospirò staccandosi dalla finestra, mentre
nella stanza, automaticamente, la luce
diventava più intensa. Si sentiva pesare
sulle spalle il carico di una lunga fatica.
Si la lotta era conclusa. La parola fine era
stata messa all’ultimo episodio. Ma era
veramente un punto fermo? E che cosa
sarebbe accaduto, dopo? C’erano ancora
tante cose da fare, e loro erano in numero
troppo esiguo, per portarle a termine. Lui
stesso, scelto come capo supremo dal
proprio popolo, non era, in un certo senso,
schiavo delle loro conquiste? Che
cosa avrebbe portato l’avvenire? Forse
altri scontri, e il prossimo quando li
avrebbe colpiti?, da dove? Ci sarebbe mai
stata per tutti una vera
pace, sotto le stelle
amiche?
Andò a sedersi alla
scrivania, sforzandosi di
scacciare la tristezza che
lo abbatteva. Si disse,
con irritazione che il suo
pessimismo era
unicamente frutto della
stanchezza, della
prolungata tensione
nervosa. Si disse che, in
quei tempi terribili, non
aveva il diritto di
abbandonarsi alla
depressione e allo
scoraggiamento. Prese
dalla scrivania alcuni
fogli di Marte e
incominciò ad
esaminarli.
Ebbe un gesto di
irritazione al suono di
un campanello. Non lo
avrebbero dunque,
lasciato lavorare in pace almeno per una
mezz’ora di seguito? Invece di rispondere
ritornò accanto alla finestra e guardò
nuovamente il cielo. Trascorsero alcuni
minuti, durante i quali egli rimase assorto
nei propri pensieri. Non correva nessun
pericolo, rimanendo alla finestra. Chi
avrebbe potuto guardarlo e sorprendersi?
Il suo ufficio segreto era posto a tale altezza
sulla città di San Paulo, in cima ad una
immensa torre, che nemmeno il rumore
della circolazione riusciva ad arrivarvi. Del
resto, la città era scura, quasi deserta. E nel
suo ufficio non entrava nessuno che non
appartenesse al suo popolo.
Il campanello suonò ancora. Egli pensò
d’aver avuto torto a non rispondere subito,
ad essersi lasciato andare a qualche minuto
di pigrizia. Poteva trattarsi di una
comunicazione urgente, importante. Si
chinò sul piccolo schermo che trasmetteva
la sua voce fino all’anticamera.
Entrate? Disse poi, andò nuovamente a
sedersi dietro la sua scrivania..
I PROTEIFORMI
2
La porta si aprì, ed entrò un ufficiale.
“Che cosa desiderate?” gli chiese
Intelligenza Suprema. “Ho molto da
fare.”L’ufficiale salutò, scattando
sull’attenti con un movimento elastico e
rapido.
“Prego Vostra Grandezza di scusarmi. Si
tratta dell’affare Arnfeld. Mi hanno
appena portato un nuovo documento che lo
riguarda.” Datemelo, allora, invece di
rimanere lì impettito. Per il diavolo, questo
caso Arnfeld è la più fastidiosa storia che
abbiamo avuto, dopo l’Esodo…
L’ufficiale avanzò con passi rapidi e depose
un quaderno sulla scrivania.
“Ecco” disse “Che cosa hanno trovato
laggiù, perquisendo la casa, dopo che tutto
fu finito. A quanto sembra, Arnfeld, visto
che ogni cosa era perduta, redasse
quest’ultimo rapporto per trasmettere a
quelli della sua razza il racconto di quello
che aveva scoperto e che aveva tentato.
Aveva nascosto questo quaderno sotto una
piastra del pavimento. “E’ quasi patetico,
da un certo punto di vista” disse
Intelligenza Suprema. “Sento quasi
ammirazione per quella creatura e per i
suoi amici. Hanno dimostrato molto
coraggio, persino la femmina, che alla fine
li ha traditi, non l’ha fatto per motivi
ignobili. Dalla sua grossa testa, sormontata
da una cresta carnosa, sembrava emanare
una luce fredda, mentre si chinava sul
documento che l’ufficiale gli aveva
consegnato. Era un quaderno scolastico,
sgualcito e sporco. Le prime pagine erano
riempite da una scrittura infantile:
problemi di aritmetica, illustrati da goffi
disegni. Le pagine seguenti erano coperte
da una minuta scrittura maschile, ferma
rapida, serrata. Si capiva che le frasi erano
state vergate in fretta.
“Il testo, è molto lungo” disse Sua
Grandezza. “Devono essere occorsi
parecchi giorni ad Arnfeld, per scrivere
tutta questa roba.
“Infatti, sono rimasti chiusi parecchi giorni
in quella casa isolata.
“Già. Pare che sia così.
Intelligenza Suprema lesse, con occhio
quasi vitreo, le prime linee del manoscritto.
“Queste pagine, scritte da David Mark
Arnfeld, cittadino degli Stati Uniti
d’America, pianeta Terra, sono state
iniziate il 21 agosto 2043. io sono sano di
corpo e di mente. Un esame delle mie
schede psichiatriche dimostrerà come sia
poco probabile che io possa essere
impazzito, il che, senza dubbio non
mancheranno di affermare. Desidero
unicamente esporre qui tutta la verità su
un problema che interessa tanto la specie
umana quanto i marziani.”
“Uhm!” esclamò Intelligenza Suprema,
guardando il soffitto. “Dovremo, è chiaro,
modificare un poco quelle schede, nel caso
che qualcuno pensasse di esaminarle…-
Sorrise. – Devo essere grato al signo
Arnfeld di avermi suggerito questa misura
di prudenza.
Sembra che il testo sia un resoconto di…
E’ quello che vedrò io stesso. Portate qui la
donna.”
“Subito Vostra Grandezza vado a
cercarla.”
Intelligenza Suprema continuò a leggere.
“Onde evitare di trascurare qualcosa che
possa fare luce sulla verità, riporterò qui
tutto quello che è successo nei minimi
particolari, sia che essi riguardino fatti e
conversazioni avute sia che si tratti di
sensazioni soggettive, e tutto ciò nei limiti
della mia memoria. Se sembrerà un
racconto di fantasia, me ne scuso, ma
supplico chiunque leggesse queste pagine di
trasmetterle segretamente, insisto sulla
necessità del segrego, a Rafael Torreos, ex
colonnello del Servizio dell’Ispezione delle
Nazioni Unite, e di deporle nelle sue mani.
“Credo anche, di potere permettermi di
scrivere a modo mio. In altri tempi, ho
desiderato diventare scrittore e ho passato
ore e ore a riempire pagine su pagine.
Poiché questo racconto è probabilmente
l’ultima delle mie opere, voglio almeno
redigerlo nello stile che mi piace.”
“Torreos?” mormorò Intelligenza
Suprema. – La donna non mi ha fatto
questo nome…Dovremo occuparci di
costui, che evidentemente deve collaborare
coi marziani ed essere quindi in buoni
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rapporti con loro. Sì, sarà prudente
metterlo subito nell’impossibilità di
nuocere: una precauzione che credo
utilissima. Darò ordini in merito, domani
mattina.
La suoneria riprese a trillare. La porta
s’aprì silenziosamente, e l’ufficiale entrò,
seguito da due guardie fra le quali stava
una donna. Nonostante i lineamenti tirati
per la disperazione la donna conservava la
dignità del portamento e una bellezza in
circostanze normali più favorevoli. I suoi
magnifici capelli, folti dai riflessi dorati,
captavano la luce, ma il viso era pallido e
patito e gli occhi arrossati dalle lagrime.
“Christine Hawthorne, avete già visto
questo quaderno?”
Le chiese, senza preamboli, Intelligenza
Suprema.
S’esprimeva con tono calmo e neutro, con
un lieve sforzo per adattare le proprie
corde vocali a una pronuncia corretta
dell’inglese.
“Dov’è la mia bambina?”
Chiese lei, rimando, con voce strozzata.
“Non temete, ne abbiamo cura. Vi sarà
resa a suo tempo, se collaborerete con noi.
“Non ho già fatto abbastanza per voi?”
rispose la donna, in tono triste,
angosciato.” “Non è sufficiente che vi abbia
consegnato Dave e Reggy, e tradito tutti
quelli della mia razza?
“Sembra che voi non comprendiate il
carattere definitivo della nostra vittoria”
replicò Intelligenza Suprema, con un
leggero tremito di voce. David Anfield e
Regelin dzu Coruthan sono morti. I loro
cadaveri sono in nostro possesso, per lo
meno ciò che ne resta. Insomma: non li
avete uccisi voi stessa?
“Si” ammise lei col gli occhi bassi. “Si, l’ho
fatto…Per la mia bambina.
“Bene, tutto è finito, ormai. E voi, l’unica
sopravvissuta, siete nostra prigioniera.
Siete ufficialmente morta, e non vi
lasceremo andare. Tenete quindi conto di
tutto ciò e comportatevi di conseguenza.
Ora rispondetemi: avete già visto questo
quaderno?” La donna s’accostò alla
scrivania e guardò il documento.” “Si disse
infine. Quel quaderno era nella casa ,
quando vi arrivammo. Dave lo usò per
scrivere, se ne servì ogni giorno. Poi lo
nascose, proprio prima della fine, ma non
ci ha mai detto dove, per evitare che Reggy
o io potessimo rivelare il nascondiglio, nel
caso in cui fossimo stati catturati vivi.
“Avrebbe potuto prevedere le nostre
minuzione ricerche. È vero che ormai non
aveva più niente da perdere….
Intelligenza suprema alzò una mano. Una
mano con sette dita. Portatela via.
Mentre il piccolo gruppo stava per
oltrepassare la porta, lui aggiunse con
improvvisa condiscendenza:
“Dopo tutto potete anche renderle sua
figlia. –“Grazie” mormorò lei. La porta si
chiuse. Intelligenza Suprema trasse un
sospiro di sollievo e s’appoggiò allo
schienale della poltrona. Si sentiva
nuovamente molto stanco. La lotta era
stata così lunga!
Pensò che sarebbe stato meglio leggere
personalmente leggere personalmente il
documento. Il racconto di quell’episodio
così com’era stato vissuto nel campo
nemico, avrebbe potuto contenere utili
insegnamenti. Scorse rapidamente le
indicazioni puramente biografiche, perché
le conosceva: Dave Arnfeld era nato nel
2017, nel nord dello Stato di New York, in
un’antica agiata famiglia. Aveva cinque
anni quando era scoppiata la guerra fra la
Terra e Marte. A dodici anni era stato
ammesso all’Accademia Lunare. A sedici,
munito dei suoi diplomi, era entrato a far
parte dei Servizi dello Spazio, dove era
rimasto per la maggior parte della sua vita,
col grado di ufficiale, prestando servizio sia
a bordo di diverse astronavi, sia nelle basi
interplanetarie. A venticinque anni, aveva
avuto la carica di agente esecutivo alla base
Pallas. Poi la guerra era finita, e Arnfeld
era ritornato a casa. Controvoglia
Intelligenza Suprema incominciò a leggere
la minuta scrittura che riempiva il
quaderno, ma in capo a pochi minuti
dimenticò il disagio di quella decifrazione,
preso da un vivo interesse per ciò che stava
leggendo.
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4
Poiché da qualche tempo, eravamo
sprovvisti di radio, la notizia ci giunse per
mezzo di un’astronave postale, soltanto
qualche settimana dopo l’avvenimento. Ci
aspettavamo di sapere, da un momento
all’altro, che la Terra era stata sconfitta,
cosa prevedibile dopo che i marziani
avevano conquistato la Luna. Ciò
nonostante, la notizia ufficiale fu un vero e
proprio colpo. Vidi parecchi uomini
piangere. Io non piansi, ma fu ancora
peggio, forse. Continuai a fare il mio lavoro
come un automa, con la sensazione ‘essere
svuotato, d’essere soltanto un corpo
senz’anima. Nelle ore di riposo, il sapere
che eravamo stati schiacciati era ancora
più terribile. Restavo disteso sulla mia
cuccetta, nel buio e nella solitudine, in uno
stato di apatia che mi toglieva ogni gusto di
vivere. Per fortuna avevamo molto da fare,
e il lavoro m’impediva di riflettere.
In realtà, comandavo io l’asteroide. Il
nostro Comandante era smarrito in una
specie di ebetismo, per cui non lo vedevamo
che di rado. Dovevo occuparmi io di tutte le
necessità burocratiche, che erano
numerose. Dovevo, inoltre dare il benestare
al lavoro degli ingegneri, e assicurarmi che
non sabotassero le installazioni. Un giorno
sorpresi un uomo, che deliberatamente,
stava saccheggiando gli apparecchi di
controllo e di sicurezza, della nostra
maggiore pila d’energia, così che, presto o
tardi la pila avrebbe finito di saltare.
Quando interrogai il sabotatore, lui mi
rispose rudemente: “Vorreste lasciarla
intatta ai marziani? Regalare tutto questo,
con un abbraccio, magari? “Chiamatemi
signore” gli dissi seccatamene. “Così ci si
rivolge correttamente ad un ufficiale
superiore. Il Quartiere Generale, in base
alle condizioni di armistizio, ci ha dato
ordini perché questa base venga
consegnata in buono stato di
funzionamento, e io farò rispettare questi
ordini. I marziani ci tengono per la gola –
aggiunsi con tono un po’ meno severo – se
non facciamo ciò che chiedono la Terra ne
andrà di mezzo. Avete una famiglia laggiù,
non è vero? “Si” mi rispose “se non li
hanno ammazzati tutti in un
bombardamento.” “Noi ci siamo battuti
valorosamente, e abbiamo fatto gravi danni
a nostra volta. Forse un giorno potremo
avere la nostra rivincita, ma in attesa di
quel giorno dobbiamo leccare i piedi ai
marziani, se è necessario, perché la razza
umana possa continuare a vivere.”
“Mi limitai ad infliggere al sabotatore una
leggera pena: tuttavia feci compilare un
ordine del giorno, nel quale prevenivo tutti
quanti che se si fosse verificata un’altra
infrazione del genere, i colpevoli sarebbero
stati giudicati per direttissima dalla Corte
Marziale. In fondo i miei uomini sapevano
ch’io avevo ragione, ma anch’essi erano
come svuotati. Si sentivano vinti, e le
prospettive del futuro erano nere.
M’ingegnai a trovare per loro del lavoro,
degli svaghi, qualsiasi cosa potesse ridare
loro un poco di gusto per la vita. Ma i
risultati non furono brillanti.
Trascorsero quattro mesi, durante i quali il
Quartiere Generale non diede segno di vita.
La cosa cominciava a preoccuparmi,
poiché eravamo da parecchio tempo
razionati, e le nostre riserve di viveri erano
ormai prossime all’esaurimento. Mi
chiedevo se non fosse il caso di trasgredire
gli ordini ricevuti e usare un razzo per
andare a cercare aiuto. Il planetoide Hilton
non era molto lontano da noi, bene inteso
calcolando la distanza in linguaggio
astronautico, e laggiù c’erano installazioni
per la produzione artificiale di viveri.
Il nostro asteroide si spostava rapidamente
attraverso la grande notte glaciale, in un
cielo disseminato da milioni di stelle, che
sembravano gocce ghiacciate. La fascia
della Via Lattea riluceva dolcemente. Il
nostro sole era lontano, molto lontano: un
minuscolo disco senza calore che
dispensava soltanto una pallida luce sulle
aggressive rocce frastagliate. Fuori della
base vera e propria regnava un silenzio
perpetuo, e noi respiravamo male nei
caschi delle nostre tute spaziali.
Finalmente, all’improvviso ci giunsero dei
soccorsi: quattro grandi astronavi
marziane, usate per il trasporto delle
truppe, apparvero all’improvviso,
sputando violenti getti di fiamme dai
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reattori. Erano accompagnate da un lungo
incrociatore nero.
Ci raggruppammo nel migliore ordine
possibile, sforzandoci di assumere un’aria
dignitosa, per ricevere gli ufficiali nemici,
poiché avevamo una reputazione da
salvaguardare: eravamo gli uomini della
base di Pallas, uomini che avevano
combattuto per le Nazioni Unite della
Terra, che avevano respinto tre violenti
attacchi in un anno, e che negli intervalli,
durante eterne giornate di attesa, avevano
saputo conservare alto il morale.
Credo che il Comandante marziano sia
rimasto favorevolmente colpito dal nostro
aspetto. Non arrivò al punto di stringerci la
mano, dando una dimostrazione di tatto,
tuttavia inchinò cortesemente davanti a noi
il suo grande corpo alto oltre due metri,
secondo la migliore tradizione
dell’aristocrazia marziana.
“Siete il comandante in carica?” mi
domandò.
Parlava portoghese e molto meglio di me.
La lingua brasiliana è ancora la più diffusa
sulla Terra, ma alla base di Pallas eravamo
per la maggior parte anglosassoni, e quindi
parlavamo inglese.
“Si per il momento” risposi. Roberts il
nostro comandante, è indisposto.” Il
vecchio era a letto con una bottiglia di
alcool. Probabilmente stava piangendo,
cosa che gli accadeva spesso, dopo la nostra
disfatta, ma mi parve inutile dirlo.
“Scusate se abbiamo tardato a venire”
disse il marziano. “Come potrete intuire,
avevamo moltissimo da fare. Le nostre
astronavi sbarcheranno uomini che vi
daranno il cambio. Voi sarete trasportati
sulla Terra a Quito. Ognuno dei vostri
uomini sarà munito di un biglietto di
viaggio per la grande città più prossima al
suo domicilio. Parlando agitava la lunga
mano magra.
Ancora una volta fui colpito dal fatto che la
maggior differenza fra la mano di un
marziano e quella di un uomo, non sono né
le sue sei dita, né la pelle bruno –cuoio, ma
le unghie particolarmente quadrate. Ci
siamo
Ci siamo combattuti per troppo tempo –
riprese il mio interlocutore sorridendo.
“Ormai è ora che i nostri due popoli
diventino amici.
“amici?” pensai. “Dopo ciò che hanno fatto
alla Terra?” E’ chiederci troppo. Troppo
per quel che mi riguarda, comunque!”
ci imbarcammo per il lungo viaggio di
ritorno, che fu senza storia monotono,
deprimente. Per distrarli, costringevo gli
uomini a fare quotidiane esercitazioni.
Dopo avere vissuto a lungo su un asteroide
sul quale la gravità era debole, dopo
settimane di soggiorno in un’astronave
dove, praticamente, la gravità non esisteva,
era necessario riadattarci alla gravità
terrestre. I miei uomini erano deperiti per
la mancanza di alimentazione sufficiente,
ma credo di averli tenuti ugualmente in
buona forma. Erano, infatti abbronzati
dalla cruda luce solare dello spazio. A
bordo ufficiali ed equipaggio erano
marziani. Rimanevano tuttavia, confinati
nei loro alloggi. Li vedemmo appena e non
vi furono incidenti. Verso la fine del
viaggio notai che tanto la mia apatia
quanto quella dei miei uomini
incominciava ad attenuarsi. Vinti o no,
tornavano a casa. Vecchie fotografie dagli
orli consumati furono tirate fuori dai
portafogli, contemplate a lungo. Si rilessero
vecchie lettere, ci si lasciò prendere dai
ricordi. S’udì persino qualche canzone.
Facemmo progetti per rivederci in gruppo
una volta all’anno.
Nonostante la mia amarezza, incominciavo
a comprendere che c’era stato qualche
buon momento nel corso di quegli anni
perduti.
La nostra astronave entrò i orbita intorno
alla Terra e io contemplai per un bel po’ il
mio pianeta natale che roteava, azzurro e
magnifico, su uno sfondo di stelle.
Alla superficie non si distinguevano tracce
della guerra. Dopotutto, sia gli uomini sia i
marziani erano soltanto minuscoli insetti se
confrontati con l’infinità dello spazio e del
tempo.
Alcuni razzi ci prelevarono per
trasportarci a Quito.
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La città era stata terribilmente
bombardata, e non era ormai che un
immenso cumulo di rovine. Tuttavia la
radioattività s’era dissolta, adesso e le
montagne erano sempre belle come un
tempo. Era stato costruito un nuovo
astroporto, contornato da file di capanne e
di baracche che, forse, sarebbero state
l’embrione di una nuova città. Non mi
inginocchiai per baciare la terra, come
molti altri dei miei compagni, ma tesi i
muscoli per provare la potenza della sua
gloriosa gravità e aspirai a pieni polmoni
l’aria pura e frizzante. Le lacrime mi
offuscavano la vista.
Mi misi in contatto con gli ufficiali di
collegamento terrestre e trascorsi i due
giorni seguenti a smobilitare la mia unità.
Gli uomini ricevevano un biglietto di
viaggio e gli arretrati della loro paga, con
un piccolo supplemento per compensare gli
effetti dell’inflazione che stava finendo di
rovinare un’economia agonizzante, nonché
tessere per gli alimenti, varianti secondo le
regioni nelle quali risiedevano: il tutto con
l’aggiunta di un opuscolo illustrato che
spiegava loro le nuove leggi e ingiungeva
l’obbedienza verso le autorità occupanti.
Poiché c’era penuria di capi vestiario, ci
autorizzarono a tenere la nostra uniforme,
a condizione di portarla senza insegne.
Contemplai a lungo la stella alata che
avevo scucito dalla mia giubba prima di
avvolgerla in un pezzo di carta e di farla
scivolare in tasca.
Gonzales, il Comandante del distretto, mi
chiese: “Non vorreste rimanere qui per
qualche tempo? Non vi consiglio di andare
a New York. È stata spaventosamente
colpita: le condizioni di vita sono adesso
molto dure laggiù.
“Sono dure ovunque, segnor” gli risposi.
“Ahimè! Siamo ridotti a una economia
primitiva, incapace di provvedere alle
necessità della scarsa popolazione rimasta.
Siete ancora fortunato d’essere arrivato
dopo la fine della guerra. Se aveste visto
come andavano le cose, quest’inverno. E
anche questa primavera….
“Carestia?” “Già: fame. E le peggiori
epidemie. I marziani potevano aiutarci,
molto limitatamente, devo riconoscere
tuttavia che cercarono di farlo. Ciò
nonostante milioni di esseri umano sono
morti..e continuano a morire.
Gettò uno sguardo triste sull’aeroporto
dove sventolava ancora la nostra bandiera
sulla quale campeggiano un globo e un
ramo d’ulivo; ma la bandiera marziana,
ornata di una doppia falce di luna,
sventolava più alta.
“E’ la fine dell’indipendenza umana” disse.
“Ormai siamo come bestiame.
“Le cose potrebbero cambiare” ribattei.
Mettiamo che occorrano vent’anni per
riprenderci. Fra vent’anni, potremmo
rimanerci e…”
Fece una smorfia.
Il fatto è che i marziani non ci
permetteranno di risollevarci: intendono
abolire le industrie sulla Terra e instaurare
una civiltà rurale. E sarà così per sempre,
poiché conoscete il carattere dei
marziani…Non sono vendicativi ma molto
previdenti, prudenti e pazientissimi. Quel
progetto mi parve terribilmente
draconiano. Prima che noi potessimo
vivere convenientemente in un sistema
economico puramente agricolo, la nostra
popolazione avrebbe dovuto essere ancora
ridotta della metà. E saremmo stati
costretti a diventare contadini, manovali,
artigiani, boscaioli. A voler essere ottimisti
si sarebbe potuto aspirare al massimo, a
diventare burocrati dell’Impero Marziano.
E saremmo rimasti così, confinati nella
nostra ignoranza, mentre Marte avrebbe
monopolizzato le scienze, le industrie, il
progresso e avrebbe potuto slanciarsi alla
conquista delle stelle.
Del resto, al posto dei marziani, avrei agito
nello stesso modo. La Terra possedeva tanti
vantaggi naturali, ed era stata così vicina
ad annientare i propri avversari, che
avevano ragione di diffidarne. E dire che,
se nel Grande Stato Maggiore ci fosse stato
qualche cervello meglio organizzato,
avremmo potuto battere Marte in cinque
anni! Purtroppo i nostri capi supremi
avevano commesso errori su errori,
balordaggini a volte persino inconcepibili.
Vero che anche i capi dei marziani avevano
7
sbagliato spesso, senza che la guerra non
sarebbe stata né così lunga né così
devastatrice. Trattandosi della prima
guerra interplanetaria, sia nella storia
umana, che nella storia marziana, s’erano
presentate situazioni assolutamente
imprevedibili per entrambi i contendenti, e
gli errori erano forse stati inevitabili.
Ma non serviva a niente recriminare,
ormai. Era troppo tardi. E la nostra sorte
era segnata per sempre. “Addio
Comandante” mi disse Gonzales. “E buona
fortuna!”
Il mio viaggio fina New York fu senza
storia. I miei compagni di viaggio erano
tutti esseri umani: tutti miseramente vestiti
e tutti con una ruga d’amarezza all’angolo
della bocca. Mi assillarono di domande sul
modo in cui s’era svolta la guerra nello
spazio. Io, invece era avido di sapere
com’erano andate le cose sulla Terra:
mancavo da cinque anni. Seppi che gli
ultimi mesi erano stati spaventosi:
bombardamenti atomici marziani, poi
capitolazione, carestia, epidemie. Tutti i
grandi centri industriali, tutti gli aeroporti
erano stati metodicamente distrutti. Era
stato impossibile assicurare il
vettovagliamento delle immense
popolazioni urbane, rintanate nei rifugi o
in fuga sulle strade, impossibile curare gli
ammalati. L’anarchia, il delitto erano
fioriti sulle rovine come piante velenose,
s’erano sparsi dovunque nel mondo
nonostante la cooperazione delle forze
marziane con quelle delle Nazioni Unite e
con le autorità locali, per fare cessare lo
scatenarsi della violenza.
“E forse vedremo ancora di peggio” disse
un americano con voce lugubre.
“Dobbiamo aspettarci di patire la fame per
anni e anni, fina a quando la densità della
popolazione sarà scesa a un livello che
permetta al resto di nutrirsi in modo
sufficiente. E non potremo far niente per
risollevarci. I marziani stanno
smantellando sistematicamente tutte le
installazioni industriali di qualche
importanza, che ancora esistono. Fra
quattro o cinque anni, non ci sarà più
niente. Riprenderemo a spostarci a cavallo,
navigheremo su barche a vela. È già
previsto che la linea di razzi sulla quale
stiamo viaggiando verrà soppressa fra
qualche mese, non appena saranno esaurite
le più urgenti necessità di comunicazione.
“Sarebbe meglio che continuassimo a
batterci” disse un altro.” Non sono
numerosi quei marziani! Saranno sì e no
quattro o cinque milioni di soldati, sparsi
in una infinità di guarnigioni, tutto intorno
al nostro pianeta. E la gravità terrestre è
penosa da sopportare per loro! Dovremmo
riorganizzarci e buttarli fuori.
“E con che cosa?” chiese una voce stanca.
“Con fucili da caccia e coltelli da cucina,
contro la loro artiglieria atomica, le loro
mitragliatrici i loro lanciafiamme, le loro
astronavi? E non dimenticate le basi sulla
Luna: la minimo sentore di rivolta,
potrebbero bombardarci da lassù e finire
di compiere la rovina della Terra.”
“Vi siete arresi voi astronauti?!”
La domanda mi venne rivolta da una
donna, giovane, ma dai tratti
prematuramente induriti.
“Credo di si” risposi “Se intendete dire che
avrei fatto meglio a lasciarci la pelle”.
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Era quasi buio, quando atterrammo.
Mi recai alla torre di controllo
dell’astroporto. Le cui installazioni erano
state sommariamente rimesse in piedi. Di
lassù contemplai a lungo ciò che rimaneva
di New York. M’avevano detto che la città
era stata duramente colpita, ma non avrei
mai immaginato che fosse ridotta in quel
modo. Le orgogliose, fiere strutture dei
grattacieli di Manhattan non erano ormai
che un ammasso di scheletri di acciaio,
spezzati, demoliti, che parevano tendere
allo spazio le braccia scarnite. Alcuni
grattacieli, direttamente colpiti dalla
folgore atomica, si erano fusi e parevano
rocce spaccate fatte di un amalgama di
acciaio contorto e di cemento annerito dal
fuoco.
Intorno all’immensa buca del cratere
principale si distingueva un agglomerato
sinistro di rovine sulle quali il vento faceva
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ancora turbinare polvere e cenere.
Brooklin aveva lo stesso aspetto, sebbene
rare carcasse di palazzi simili a conchiglie
vuote fossero ancora in piedi. Le ombre del
crepuscolo nascondevano già il resto della
città, eppure non vidi luce in nessun posto.
Il Comandante dell’astroporto, un uomo
dagli occhi tristi e i gesti stanchi, che mi
aveva dato il permesso di salire sulla torre
per vedere ciò che rimaneva di New York,
mi accolse tentennando il capo, quando
ridiscesi.
“Permettetemi di darvi un consiglio,
Comandante Anfeld” mi disse. “Fareste
meglio a non allentarvi di qui, per lo meno
durante la notte. È ….spaventoso.
parlava con voce monocorde. Aveva il viso
grigio, gli occhi profondamente infossati
nelle orbite febbrili.
“Quanta gente vive ancora, fra quelle
rovine?” chiesi. “E chi lo può sapere? Un
milione forse…Tutti coloro che sono
riusciti a fuggire se non sono andati verso
la campagna, quando carestia ed epidemie
incominciarono. Adesso ci procuriamo i
viveri attraverso baratti, e offriamo lavoro
a quelli che vogliono occuparsi dello
sgombero delle macerie. La situazione p
leggermente migliorata, ora, ma poco, in
realtà…..
“Con che mezzo potrei ritornare a casa
mia?” gli domandai. “Sto più lontano a
nord”.
“C’è poco da scegliere, Comandante: a
piedi, se non sarete tanto fortunato da
trovare un passaggio sulla macchina di
qualche contadino… I paesani, come
indovinerete non hanno molta simpatia
verso la gente di città, dopo l’inverno
scorso.
Guardavo fuori, dalla finestra della
baracca. Soltanto pochissime luci
rompevano debolmente, sull’astroporto, le
tenebre venute dall’oceano.
“Bene , credo che per questa notte sarà
meglio che rimanga nelle vicinanze. Non
potreste indicarmi un posto dove andare?
“Quanto denaro avete?”
Feci una smorfia.
“Ho incassato gli ultimi arretrati di paga:
cinquantamila dollari.
Già, questo premio è stato decretato
quattro mesi fa. Oggi quella somma potrà
servirvi appena per pagarvi tre pasti e un
tetto sulla testa, per tre notti. La città paga
coloro che lavorano per lei in alimenti, in
indumenti, anche in medicine, nel limite di
ciò che ha. Si grattò nervosamente un
orecchio, ed evitando di guardarmi,
aggiunse: “Vi avrei offerto di tutto cuore
ospitalità per questa notte. Comandante,
ma purtroppo siamo già in sette in una sola
stanza e….
“Lo immagino” dissi. “Grazie. Cercherò di
trovare qualcosa…
“Provate al rifugio dei Benedettini: è un
piccolo gruppo di monaci che vivono
insieme. Hanno costruito una baracca e
accolgono, quando capita coloro che
possono aiutarli nel loro lavoro. Se hanno
posto, vi daranno un pagliericcio in cambio
di piccole prestazioni.
“Vi andrò, grazie. Potrei anche offrire un
poco di denaro, per contribuire alla loro
opera: un mezzo milione di dollari,
diciamo.
“Li accetteranno volentieri. Curano un
mucchio di malati e di invalidi.”
Mi indicò la strada da prendere per
trovare la baracca dei Benedettini, a circa
tre chilometri dall’astroporto.
“Siate prudente” mi consigliò. “C’è un
mucchio di tipacci che ammazzano un
uomo per poco o niente. La gente al colmo
della disperazione.
Posai la mano sul fodero della mia pistola,
che come ex ufficiale ero autorizzato a
portare. Pensai inoltre che la mia divisa
d’astronauta, facilmente riconoscibile
anche senza insegne, avrebbe ispirato
rispetto a meno che qualcuno non volesse
ammazzarmi proprio per impadronirsi
degli indumenti. Non era ancora
intermante notte, quando lasciai
l’astroporto, ma era tuttavia, molto buio.
Mi inoltrai per una strada fiancheggiata da
case diroccate con finestre e porte senza
vetri e senza battenti. Dovetti scalare più
volte mucchi di rottami. Incontrai rari
passanti che parevano errare, muti senza
scopo e senza speranza. Il silenzio era
assoluto, un silenzio pesante, opprimente,
9
che accentuava in modo quasi
soprannaturale il rumore dei miei passi e
quello del vento fra le rovine. Affrettai il
passo, sperando di trovare una zona
illuminata, popolata.
A un tratto una mano mi afferrò il braccio.
Sussultai e mi volsi impugnando la pistola e
puntandola sullo sconosciuto che mi aveva
fermato. Vidi che si trattava di una donna.
Il cuore mi batteva precipitosamente e mi
resi conto d’avere molta paura.
“Astronauta cerchi un alloggio per la
notte?” mi chiese la donna.
Per qualche lungo minuto la fissai senza
parlare.
“Vieni dallo spazio, non è vero?” riprese
lei. “Sei appena ritornato sulla Terra?” La
sua voce era bassa e tremante, ma era una
voce educata. Doveva essere di buona
famiglia.
“Si risposi”. Che volete da me?
Avevo abbassato la pistola, e nonostante i
miei sforzi per renderla normale, la mia
voce era ancora molto rauca. Durante la
guerra avevo affrontato pericoli maggiori
di quelli che avrei potuto incontrare in
quella città devastata, assillata dai
fantasmi, ma qui la puara assumeva un
carattere insidiosissimo e sornione al quale
non ero ancora abituato.
“Niente” disse lei. “Volevo semplicemente
domandarvi se volete passare la notte con
…a casa mia.
Non mi dava del tu, e sentivo che faceva
uno sforzo per parlare. Riprese: - “Ho un
rifugio…C’è posto. Cercavo di distinguere
i suoi lineamenti, nell’ombra. Era di
statura media, e in altri tempi doveva
essere stata piacente. Ora le sue gambe,
sotto i vestiti laceri, erano pietosamente
sottili. Doveva aver passato da un pezzo i
vent’anni: nel viso pallido, magro, dagli
zigomi alti e sporgenti, gli occhi
sembravano immensi: il naso, tuttavia era
ben modellato e la bocca piena di dolcezza
e di grazia. Tremava leggermente e potevo
udire il suo respiro affannoso. I suoi occhi
mi sfuggivano.
“Chi siete?” le chiesi. La sua voce divenne
rauca.
“Oh, ma evitate di farmi domande di
questo genere!” esclamò. “Se volete venire
ditelo e basta. Altrimenti continuate la
vostra strada, per favore.”
Per dieci anni ero vissuto continuamente
nello spazio, con rari viaggi sulla Terra o in
qualche colonia umana, tuttavia sapevo
ancora distinguere a prima vista una
donna da strada.
“E’ il vostro primo tentativo, non è vero?”
Le chiesi. Accennò di sì in silenzio.
“E perché lo fate?” le domandai. “Si può
trovare da lavora qui”
“Il lavoro che offrono è troppo pesante per
me” rispose con voce quasi impercettibile.
“Non posso andare in campagna, i
contadini non accettano più nessuno
nemmeno i più caritatevoli osano farlo. E
ho una bambina sulla quale devo vegliare.”
Scossi la testa sforzandomi di sorridere.
“Sono dolente” dissi “ di non poter
approfittare di una occasione che si offre, a
tali condizioni.
“Se non sarete voi, sarà un altro” mi
rispose, con voce disperata.” Preferirei voi.
Mio marito era astronauta.” “Quanto
chiedete?” domandai.
“Io” mormorò “mezzo milione di dollari, è
troppo?”
Bè dissi, poiché cerco rifugio e voi avete
posto, vi darò mezzo milione per il letto e la
prima colazione. Non vi chiedo altro.” Si
mise a piangere. Potevo vederla da vicino,
adesso: i suoi lunghi capelli, dorati erano
ancora magnifici, i vestiti che indossava
avevano dovuto essere di ottima qualità, e
osservai che, nonostante lo stato d’usura in
cui erano ridotti, erano puliti. Come aveva
potuto conservarli così senza sapone? Forse
lavandoli con acqua e sabbia.
Le presi una mano e li mi guidò verso la
sua casa, evitando abilmente i mucchi di
rifiuti, di macerie e di vetri spezzati.
Arrivammo davanti a un edificio che una
volta era stato un grande albergo, ma che
ora era completamente rovinato. Lei ne
aveva camuffato l’ingresso con due porte
demolite e qualche ramo di quelle
sterpaglie che incominciavano a crescere
qua e là, nella città.
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Strisciammo lungo uno stretto corridoio
fino a un buco di forma piuttosto regolare,
di due metri circa di larghezza e non di
cinquanta di altezza. La donna accese una
vecchia lampada a olio. In quell’alloggio
primitivo non si poteva stare nemmeno ritti
in piedi, ma tutto era pulito come i suoi
vestiti, e altrettanto consumato. C’erano
alcuni utensili casalinghi, un materasso,
qualche libro. Una bambina stava giocando
sul pavimento, una graziosa bambina di tre
anni, che aveva gli stessi capelli biondi
della madre, i medesimi grandi occhi verdi.
Corse verso la donna, che la prese in
braccio.
“Non ti sei sentita troppo sola Alice?”
domandò la donna.
“Oh, no, mamma.”Balbettò la piccola. “Ho
giocato con Hoppy, abbiamo parlato, e lui
mi ha detto che avresti portato papà, a casa
e che….
Il mi ero seduto in un angolo, con una
sensazione di vuoto nel petto e il cuore
stretto.
Non potei frenarmi dall’esclamare;
severamente: “E voi avreste lasciato che la
vostra bambina assistesse a…
La donna mi gettò un’occhiata carica di
collera.
“Se non vi piace” disse “andatevene! Siete
stato sempre assistito e curato, voi non è
vero? Avete sempre avuto da mangiare a
sufficienza, l’ordine regnava intorno a voi e
se aveste dovuto morire, avreste avuto una
morte decente. Non vi siete mai dovuto
nascondere per paura, né avete mai dovuto
provvedere, in condizioni spaventose, alla
vita di un bambino…Quindi, andatevene!
Via di qui!
Mi sentivo turbato e un poco vergognoso.
“Scusatemi” dissi. “Non avevo nessuna
intenzione di farmi più santo di quanto voi
non siate. Un uomo che partecipato al
bombardamento di Zuneth non ha il
diritto di guardare la gente in faccia.
“C’eravate?”
La sua collera svanì immediatamente.
Sorrise.
“Fu la vostra maggiore vittoria” riprese.
“Dobbiamo aver ucciso almeno un milione
di marziani in quell’operazione.”
“Si” dissi “Ne abbiamo sterminato una
quantità. Esattamente come hanno fatto
loro coi terrestri, più tardi. Si, quel giorno
ammazzammo, un milione di creature
intelligenti e sensibili. Non ne sono davvero
fiero, sapete.
“Io” mormorò lei. “Vorrei poterli uccidere
tutti, quei marziani maledetti. Tutti, sino
all’ultimo!”
“Non pensate più a queste cose” dissi.
Sfogliai i libri accuratamente, ordinati in
un angolo del rifugio. Probabilmente la
donna li aveva dissotterrati dalle macerie
di qualche biblioteca. C’erano i drammi di
Shakespeare, le tragedie greche, il “Faust”
di Goethe, in tedesco, i poemi di Walt
Withman, e anche nota sentimentale, le
opere di Brooke.
Non avevo più dubbi, ormai: quella donna
era di buona famiglia, colta ed educata.
L’immaginai, rannicchiata in quella
squallida e piccola caverna mentre leggeva
“Le Troiane” e scossi malinconicamente la
testa.
“Come vi chiamate?” domandai. “Chrstine
Hawthorne. Le mie amiche mi chiamavano
Kitty.
Vidi il rossore salirle alle guance. Ebbe,
senza dubbio, la sensazione che
rispondendomi con tanta spontaneità mi
avesse autorizzato a rimanere lì a fare
quello che mi fosse piaciuto.
“Non temete Kitty.”Mi affrettati a dirle.
“Sono ciò che si dice un giovanotto
normale e non ho visto una donna da molto
tempo, ma…non temete. Mi chiamo David
Arnfeld.
Sorrise.
Chiacchierammo un poco. Come me, Kitty,
era cresciuta durante la guerra, ma i
combattimenti , fino all’anno precedente,
s’erano svolti lontano dalla Terra, cosicché
la sua vita aveva potuto essere quasi
normale e decente. Apparteneva a una
famiglia agiata, istruita. Aveva viaggiato
molto. Quattro anni prima aveva
incontrato il tenente James Hawthorne, e
l’aveva sposato. Me ne fece vedere la
fotografia. Una povera foto sbiadita, di un
giovane dalla faccia piacente e simpatica.
James era stato ucciso durante la battaglia
摘要:

1Dopounbrevecrepuscolo,lanottevenutadall’Atlanticodilagòsulmondo.Alcunelucisiacceseronellacittà,malamaggiorpartediessarimasenelletenebre.IpuntiluminosieranopiùnumerosiincielochesullaTerra,quandolestelles’accesero.SuaGrandezzaIntelligenzaSuprema.SignoredelSistemaSolare,aprìlafinestra,siappoggiòigomit...

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Poul Anderson, Urania Anni 60 I Proteiformi.pdf

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