4CAPITOLO 1. E SE...
tra Boston e Providence, e se l’ometto aveva gi`a un posto, perch´e non se l’era
tenuto? Livvy tir`o fuori il portacipria e prese a osservarsi nello specchio. Era
convinta che, se avesse ignorato l’ometto, lui sarebbe passato oltre. Cos`ı, si
concentr`o sui suoi capelli castano dorato che, nella fretta di prendere il treno, si
erano spettinati un po’; sui suoi occhi celesti, e sulla bocca piccola dalle labbra
sporgenti che, a sentir Norman, sembravano in permanenza atteggiate al bacio.
Mica male si disse. Poi guarda in su, e l’omino era seduto di fronte. Incontr`o lo
sguardo di lei e le dedic`o un bel sorriso. L’omino si affrett`o a levarsi il cappello e
lo pos`o accanto, sopra una piccola scatola nera che portava con s´e. Una corona
di capelli bianchi subito si sollev`o attorno all’ampio spiazzo calvo che rendeva il
centro della sua testa simile a un deserto. Livvy non pot´e fare a meno di ricam-
biare il sorriso ma appena il suo sguardo si pos`o di nuovo sulla scatola nera il
sorriso svan`ı e con una gomitata richiam`o l’attenzione di Norman. Norman alz`o
gli occhi dal giornale. Aveva le sopracciglia e gli occhi neri che c’erano sotto si
chinarono su di lei con la solita espressione d’affetto, un’espressione compiaciuta
e anche vagamente divertita. - Che c’`e? - Norman non guard`o verso l’ometto
grassoccio che sedeva di fronte. Livvy, con un gesto discreto del capo e della
mano, fece del suo meglio per indicare quello che vedeva. Ma l’ometto la stava
osservando e questo la fece sentire un po’ sciocca, tanto pi`u che Norman si li-
mitava a fissarla senza capire. Alla fine, gli si fece pi`u vicina e bisbigli`o: - Non
vedi che cosa c’`e scritto su quella scatola - Guard`o di nuovo, nel dirlo, e non
c’era possibilit`a di sbagliarsi. Non era una scritta che risaltasse molto, ma alla
luce vi batteva di traverso, per cui spiccava come un’area lievemente pi`u lucida
contro il fondo nero. In carattere corsivo, si leggeva: E Se. L’ometto sorrideva
di nuovo e assentiva rapidamente, continuando a indicare prima le parole e poi
se stesso. - Forse si chiama cos`ı - disse Norman sottovoce. - Oh, ma vuoi che
abbia un nome simile - Norman mise da parte il giornale. - Ora vedremo. -
Si protese verso l’altro e disse: - Signor Se - L’ometto lo guard`o attentamente.
- Sa l’ora, signor Se - L’ometto estrasse un largo orologio dal taschino del gil´e
e mostr`o il quadrante. - Grazie, signor Se - disse Norman. E aggiunse, in un
bisbiglio: - Visto, Livvy - Sarebbe tornato al suo giornale, ma l’omino stava
aprendo la sua scatola e, nel farlo, alz`o un dito per trattenere la loro attenzione.
Era soltanto una lastra di vetro smerigliato quella che tir`o fuori: misurava circa
quindici centimetri per ventidue e aveva uno spessore di un paio di centimetri.
Poi, l’ometto estrasse dalla scatola un piccolo sostegno di ferro, al quale la lastra
si adattava perfettamente. Pos`o il tutto sulle ginocchia e guard`o con orgoglio
i due. Livvy, disse, con improvvisa animazione: - Santo cielo, Norman, `e una
specie di schermo. Norman si chin`o per vedere meglio. Poi, guard`o l’ometto. -
Che cos’`e? Un nuovo tipo di televisore - L’ometto scosse la testa. - No, Norman
- disse Livvy. - Siamo noi. - Cosa - - Non vedi? `e l’autobus sul quale ci siamo
incontrati. Eccoti l`a, sul sedile in fondo, con in testa quel vecchio cappello che
ho buttato via tre anni fa. E quelle siamo Georgette e io che stiamo salendo. La
signora grassa in mezzo. Andiamo! Non vedi che siamo noi - - Dev’essere una
specie di visione - mormor`o lui. - Ma lo vedi anche tu, vero? Ecco perch´e lui
chiama questo arnese E Se. Ce lo mostrer`a, capisci? E se l’autobus non avesse
dato quello scossone... Ne era sicurissima. E si sentiva molto eccitata. Mentre
fissava l’immagine nella lastra di vetro, la luce del tardo pomeriggio parve farsi
pi`u tenue e il chiacchierio frammentario dei passeggeri attorno e dietro il loro co-
minci`o a svanire. Come lo ricordava, quel giorno! Norman conosceva Georgette
ed era stato sul punto di cederle il suo posto quando l’autobus aveva dato uno