Douglas Adams - Guida galattica per gli autostoppisti - Urania

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Douglas Adams
GUIDA GALATTICA PER GLI
AUTOSTOPPISTI
(The Hitch–Hikers Guide To The Galaxy)
© 1979 Douglas Adams
© 1980 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
Traduzione di Laura Serra
URANIA n. 843 – 6 luglio 1980
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Lontano, nei dimenticati spazi non segnati nelle carte geografiche
dell’estremo limite della Spirale Ovest della Galassia, c’è un piccolo
e insignificante sole giallo.
A orbitare intorno a esso, alla distanza di centoquarantanove
milioni di chilometri, c’è un piccolo, trascurabilissimo pianeta
azzurro–verde, le cui forme di vita, discendenti dalle scimmie, sono
così incredibilmente primitive che credono ancora che gli orologi da
polso digitali siano un’ottima invenzione.
Questo pianeta ha, o meglio aveva, un fondamentale problema: la
maggior parte dei suoi abitanti erano infatti afflitti da una quasi
costante infelicità. Per risolvere il problema di questa infelicità
furono suggerite varie proposte, ma queste per lo più concernevano lo
scambio continuo di pezzetti di carta verde, un fatto indubbiamente
strano, visto che ad essere infelici non erano i pezzetti di carta verde,
ma gli abitanti del pianeta.
E così il problema restava inalterato: quasi tutti si sentivano tristi
e infelici, perfino quelli che avevano gli orologi digitali.
Erano sempre di più quelli che pensavano che fosse stato un
grosso errore smettere di essere scimmie e abbandonare gli alberi. E
c’erano alcuni che arrivavano a pensare che fosse stato un errore
perfino emigrare nella foresta, e che in realtà gli antenati sarebbero
dovuti rimanere negli oceani.
E poi, un certo giovedì, quasi duemila anni dopo che un uomo era
stato inchiodato a un palo per avere detto che sarebbe stato molto
bello cambiare il modo di vivere e cominciare a volersi bene gli uni
con gli altri, una ragazza seduta da sola a un piccolo caffè di
Rickmansworth capì d’un tratto cos’era che per tutto quel tempo non
era andato per il verso giusto, e finalmente comprese in che modo il
mondo sarebbe potuto diventare un luogo di felicità. Questa volta la
soluzione era quella giusta, non poteva non funzionare, e nessuno
sarebbe stato inchiodato ad alcunché.
Purtroppo però, prima che la ragazza riuscisse a raggiungere un
telefono per comunicare a qualcuno la sua idea, successe una stupida
quanto terribile catastrofe, e di quell’idea non si seppe mai più nulla.
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Questa non è la storia della ragazza.
È la storia di quella stupida quanto terribile catastrofe, e di alcune
delle sue conseguenze.
È anche la storia di un libro, un libro intitolato Guida Galattica
per gli Autostoppisti, un libro non terrestre e mai pubblicato sulla
Terra, e che, fino al momento della terribile catastrofe, era
completamente ignorato dai terrestri.
Tuttavia, si trattava di un libro notevolissimo.
In effetti, era probabilmente il libro più notevole che fosse mai
stato stampato dalla grande casa editrice dell’Orsa Minore, della
quale pure nessun terrestre aveva mai sentito parlare.
Ma non è soltanto un libro notevolissimo, è anche un libro di
enorme successo, più popolare di Costruitevi la seconda casa in Cielo,
più venduto di Altre 53 cose da fare a Gravità Zero, e più controverso
della trilogia filosofico–sensazionale di Oolon Colluphid, Anche Dio
può sbagliare, Altri grossi sbagli di Dio e Ma questo Dio, insomma,
chi è?.
In molte delle civiltà meno formaliste dell’Orlo Esterno Est della
Galassia, la Guida Galattica per gli Autostoppisti ha già soppiantato
la grande Enciclopedia Galattica, diventando la depositaria di tutto il
sapere e di tutta la scienza, perché, nonostante presenti molte lacune
e contenga molte notizie spurie, o se non altro alquanto imprecise, ha
due importanti vantaggi rispetto alla più vecchia e più accademica
Enciclopedia.
Uno, costa un po’ meno; due, ha stampate un copertina, a grandi
caratteri che ispirano fiducia, le parole NON FATEVI PRENDERE DAL
PANICO.
Ma la storia di quel terribile, stupido giovedì, la storia delle sue
straordinarie conseguenze, e la storia di come quelle conseguenze
siano indissolubilmente legate al detto libro, comincia in modo molto
semplice.
Comincia da una certa casa.
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1
La casa sorgeva su un lieve rialzo, proprio all’estremo limite del
villaggio. Era isolata, e dava su un’ampia distesa coltivata di
campagna. Era una casa di nessun conto: aveva circa trent’anni, era di
mattoni, quadrata, bassa, con quattro finestre sul davanti la cui
grandezza e proporzione non erano proprio studiate per piacere
all’occhio.
L’unica persona che considerava speciale quella casa era Arthur
Dent, e per un semplice motivo: che per caso quella era la casa in cui
abitava. Vi abitava da circa tre anni, fin da quando, cioè, si era
trasferito lì da Londra, città che lo rendeva nervoso e irritabile. Anche
lui, come la casa, aveva trent’anni: era alto, aveva i capelli neri, ed era
sempre irrequieto. Quello che lo irritava di più era il fatto che la gente
era solita chiedergli sempre per quale ragione era così irritato. Arthur
Dent lavorava per una radio locale che, come lui diceva sempre ai suoi
amici, era molto più interessante di quanto essi probabilmente
pensassero. E lo era, in effetti (visto che la maggior parte dei suoi
amici lavoravano in pubblicità).
La notte del mercoledì aveva piovuto molto forte e il viottolo era
pieno d’acqua e fangoso, ma il giovedì mattina il sole splendette
chiaro e vivido sulla casa di Arthur Dent. Splendette per quella che era
destinata a essere l’ultima volta.
Arthur infatti aveva appena saputo che il consiglio comunale aveva
deciso di abbattere la sua casa per costruirvi al suo posto una
tangenziale.
Alle otto di mattina di giovedì Arthur non si sentiva molto bene. Si
svegliò e, tutto intontito, si alzò e si mise a vagare per la camera da
letto: aprì la finestra, vide un bulldozer, infilò le ciabatte e con passo
pesante andò in bagno a lavarsi.
Mise il dentifricio sullo spazzolino, si lavò, eccetera eccetera.
Lo specchio che usava per farsi la barba era fuori posto e rifletteva
il soffitto. Arthur lo risistemò, e nel farlo vi vide riflesso per un attimo
un secondo bulldozer, che era visibile di là dalla finestra del bagno.
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Sistemato lo specchio, Arthur si fece la barba, poi si sciacquò e andò
in cucina a cercare qualcosa da mettere sotto i denti.
Riempì la cuccuma d’acqua, aprì il frigorifero, prese il latte, il
caffè, e sbadigliò.
La parola bulldozer vagò nella sua mente per un attimo, alla
ricerca di eventuali collegamenti.
Il bulldozer che si vedeva dalla cucina era particolarmente grande.
Arthur lo fissò.
– Giallo – pensò, e tornò in camera da letto, per vestirsi.
Passando dal bagno si fermò a bere due bei bicchieri d’acqua.
Cominciò a sospettare di stare smaltendo una sbornia. Ma come
mai…? Si era ubriacato, la notte prima? Evidentemente sì, pensò. Si
guardò allo specchio. – Giallo – pensò, e andò in camera da letto.
Si fermò un attimo a riflettere. Gli venne in mente il pub. Oh sì,
proprio il pub. Vagamente, si ricordò di essersi arrabbiato, arrabbiato
per una faccenda che doveva essere importante. Ne aveva parlato con
la gente, ne aveva parlato a ruota libera, con la gente che stava al pub,
gli parve di ricordare: gli tornarono in mente gli sguardi vitrei delle
altre persone. La faccenda riguardava una tangenziale. Ed era una
faccenda che lui aveva appena scoperto. Nei canali d’informazione più
riservati era nota già da mesi, anche se sembrava che nessuno ne fosse
mai stato informato. Ridicolo. Ma si sarebbe risolta da sola, pensò
Arthur: nessuno voleva quella tangenziale, e il consiglio non aveva
niente cui appigliarsi per far passare la cosa. Sì, la questione si sarebbe
risolta da sola.
Dio, ma che terribile sbornia si era preso! Arthur si guardò allo
specchio dell’armadio, e tirò fuori la lingua. – Gialla – pensò. La
parola giallo continuò come prima a vagare nella sua mente, in cerca
di eventuali collegamenti.
Quindici secondi dopo Arthur uscì di casa e si sdraiò davanti al
grosso bulldozer giallo che stava avanzando lungo il viottolo del suo
giardino.
Il signor L. Prosser era, come si suol dire, soltanto umano. In altre
parole era una forma di vita bipede a base carbonio, discendente da
una scimmia. In particolare, il signor Prosser aveva quarant’anni, era
grasso e scalcagnato e lavorava per il locale consiglio. Abbastanza
curiosamente era, anche se non lo sapeva, un diretto discendente, in
linea paterna, di Gengis Khan. Ma miscugli razziali intervenuti in
successive generazioni avevano talmente alterato i suoi geni, che non
si riscontravano più in lui le caratteristiche del mongolo, e che le
uniche tracce della sua augusta ascendenza erano una gran pancia e
una particolare predilezione per i cappelli di pelo.
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Prosser non aveva assolutamente la tempra del grande guerriero:
era invece un uomo nervoso e preoccupato. Quel giorno era
particolarmente nervoso e preoccupato, perché gli era andata
malissimo una questione che riguardava il suo lavoro (il suo lavoro
era far sì che la casa di Arthur Dent fosse demolita prima del
tramonto).
– Su, piantatela, signor Dent – disse – non potete farcela e lo
sapete. Non potete stare sdraiato davanti al bulldozer all’infinito. –
Cercò di guardare Arthur Dent con severi occhi fiammeggianti, ma
non ci riuscì.
Arthur batté le mani nel fango in cui era steso, producendo un ciac
ciac.
– Io sono pronto a resistere – disse. – Vedremo chi si arrenderà per
primo.
– Ho paura che dovrete accettare per forza la cosa – disse il signor
Prosser rigirandosi nervosamente il cappello di pelo in testa. – La
tangenziale va fatta, e sarà fatta!
– È la prima volta che lo sento dire – disse Arthur. – Perché mai
andrebbe fatta?
Il signor Prosser agitò criticamente il dito contro Dent, poi si pentì
e smise.
– Come perché mai andrebbe fatta? – disse. – È una tangenziale. E
le circonvallazioni sono necessarie.
Le tangenziali sono soluzioni che permettono a certuni di
sfrecciare molto rapidamente da un punto A a un punto B, nel mentre
certi altri sfrecciano molto rapidamente dal punto B al punto A. La
gente che abita nel punto C, a metà strada tra A e B, spesso si chiede
cosa ci sia di così importante nel punto A da indurre tanta gente a
correrci spostandosi da B, e cosa ci sia di così importante nel punto B,
da indurre tanta gente a correrci spostandosi da A. Così, le gente del
punto C finisce per augurarsi che tutti quei corridori si decidano una
buona volta a scegliere una dannata dimora definitiva.
Il signor Prosser avrebbe voluto trovarsi nel punto D. Cioè, molto
semplicemente, in un qualsiasi punto opportunamente lontano dai
punti A, B e C. Avrebbe voluto abitare in una bella casetta nel punto D
e passare piacevolmente buana parte del tempo nel punto E, che
doveva coincidere col pub più vicino al punto D. Sopra la porta
avrebbe messo delle asce, anche se sua moglie avrebbe insistito per le
rose rampicanti. Non sapeva perché, ma le asce gli piacevano
moltissimo.
D’un tratto, Prosser arrossì violentemente, rendendosi conto delle
risate di scherno degli altri guidatori di bulldozer. Spostò il peso prima
su un piede, poi sull’altro, ma si sentì a disagio su entrambi. Era
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chiaro che qualcuno si era dimostrato spaventosamente incapace.
C’era da sperare che quel qualcuno non fosse lui stesso.
Disse: – Avevate tutto il diritto di fare eventuali rimostranze o di
dare eventuali suggerimenti quand’era il momento, non vi pare?
– E quand’era, questo momento? – strillò Dent. – Il momento! La
prima volta che ho sentito parlare di tutta questa faccenda è stato ieri,
quando un operaio è venuto a casa mia. Gli ho chiesto se era venuto
per pulire i vetri delle finestre e lui mi ha detto che no, era venuto per
demolire la casa. Ma naturalmente non me l’ha detto subito. Oh, no.
Prima mi ha pulito un paio di vetri e mi ha chiesto cinque sterline di
compenso. Poi me l’ha detto.
– Ma signor Dent, è da nove mesi che i piani del progetto sono
disponibili al pubblico, nel locale ufficio Viabilità e Traffico.
– Oh sì, sì! Be’, appena ho saputo la cosa sono corso a vederli, ieri
pomeriggio. Non è che vi siate sforzati molto di richiamare
l’attenzione su quel progetto, vero? Vi siete ben guardati dal parlarne
con chicchessia.
– Ma i piani erano visibili al pubblico…
– Visibili?! Sono dovuto scendere nello scantinato per vederli!
– Ma è quello l’ufficio di consultazione per il pubblico!
– E si deve consultare con la torcia elettrica?
– Oh già, si vede che le lampade si erano fulminate.
– Ma non mancava solo la luce. Mancava anche la scala!
– Insomma, avete trovato i piani?
– Sì – disse Arthur – sì. Erano in fondo a un casellario chiuso a
chiave che si trovava in un gabinetto inservibile sulla cui porta era
stato affisso il cartello Attenti al leopardo.
In cielo passò una nube, che proiettò la sua ombra su Arthur, che
stava sdraiato nel fango, col torso eretto, puntellandosi sui gomiti. La
nube proiettò la sua ombra anche sulla casa di Arthur. Il signor
Prosser guardò questa aggrottando la fronte.
– Non è mica tanto bella, la vostra casa – disse.
– Si dà il caso però che a me piaccia – disse Arthur.
– La tangenziale vi piacerà ancora di più, ne sono certo.
– Ma smettetela! – disse Arthur. – Smettetela e andatevene, e
portatevi dietro la vostra maledetta tangenziale! Non avete niente di
concreto cui appigliarvi, lo sapete benissimo!
Il signor Prosser aprì e chiuse la bocca un paio di volte senza
riuscire a dire nulla: nella sua mente, per un attimo, si susseguirono
immagini stranissime, ma terribilmente attraenti. Immagini della casa
di Arthur Dent consumata da un furioso incendio, e di Arthur Dent
urlante e in fuga dalle rovine fiammeggianti, con tre pesanti lance
conficcate nella schiena. Il signor Prosser era spesso turbato da
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immagini del genere, che lo innervosivano alquanto. Balbettò
confusamente qualcosa, poi riprese il controllo di sé.
– Signor Dent – disse.
– Eh? Sì? – disse Arthur.
– Lasciate che vi dia qualche dato concreto. Avete la minima idea
di che danno verrebbe a quel bulldozer se semplicemente ve lo facessi
passare sopra?
– Che danno? – disse Arthur.
– Nessunissimo! – disse il signor Prosser, e si allontanò infuriato,
chiedendosi perché mai sentisse in testa uno scalpiccio come di mille
cavalli tartari.
Per una curiosa coincidenza, nessunissimo era anche la parola che,
posta davanti a sospetto, definiva quanto poco il discendente–di–
scimmia Arthur Dent immaginasse che il suo più intimo amico, lungi
dal discendere a sua volta da una scimmia, proveniva in realtà da un
piccolo pianeta nelle vicinanze di Betelgeuse e non, come sosteneva,
da Guildford.
Arthur Dent, appunto, non aveva mai minimamente sospettato la
cosa.
Questo suo amico era arrivato sulla Terra circa quindici anni
terrestri prima, e aveva fatto di tutto per integrarsi nella società
terrestre. E, bisogna ammettere, con un certo successo. Per esempio
aveva passato quei quindici anni fingendo di essere un attore
disoccupato, il che era abbastanza plausibile.
Aveva fatto però un grosso errore di disattenzione, perché aveva
sorvolato un po’ troppo sul necessario lavoro di ricerca. Le
informazioni poco accurate che aveva raccolto lo avevano così indotto
a scegliere, come nome che passasse inosservato, quello di “Ford
Prefect”.
Ford Prefect non era particolarmente alto, aveva lineamenti che
colpivano, ma che non erano particolarmente belli. Aveva capelli
rossicci, ispidi e spazzolati all’indietro. Anche la pelle sembrava
spazzolata, o meglio tirata, all’indietro. C’era qualcosa di lievemente
strano in Ford, ma era difficile dire cosa. Forse si trattava del fatto che
Ford non sbatteva le palpebre con la stessa frequenza del resto
dell’umanità, per cui, quando si parlava con lui, a un certo punto
succedeva che si cominciava a lacrimare, per sopperire a quello che
sarebbe dovuto essere il suo bisogno di lacrimare. O forse si trattava
del fatto che Ford aveva un sorriso un pochino troppo aperto, che dava
alle persone la snervante impressione di potere essere morsicate sul
collo da un momento all’altro.
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Per la maggior parte degli amici che si era fatto sulla Terra, Ford
Prefect era un eccentrico: un eccentrico innocuo, un indisciplinato
ubriacone dalle abitudini alquanto bizzarre. Spesso partecipava, per
esempio, non invitato, a feste universitarie, si ubriacava come un
carrettiere e si metteva a prendere per i fondelli tutti gli astrofisici che
gli capitavano sotto tiro, finché alla fine si faceva cacciare fuori.
A volte lo si scopriva a fissare stranamente il cielo, come se fosse
ipnotizzato, e quando capitava che qualcuno gli chiedesse cosa stava
facendo, sussultava con aria colpevole: poi, dopo un attimo, si
calmava e sorrideva.
– Oh, cerco solo i dischi volanti – rispondeva scherzando, e allora
tutti ridevano e gli chiedevano che tipo di dischi volanti cercasse.
– Quelli verdi! – diceva lui con un sorriso malizioso. Poi finiva per
sganasciarsi dal ridere e quindi, all’improvviso, concludeva
precipitandosi al più vicino bar, dove ordinava un’enorme quantità di
bevande alcoliche.
Di solito, serate del genere finivano male. Ford, carico di whisky,
partiva per la tangente, si rintanava in un angolo con una ragazza e le
spiegava con frasi sconnesse che a dire il vero il colore dei dischi
volanti non aveva poi così importanza.
Dopo di che, barcollando come un semiparalitico per le strade,
chiedeva a qualche poliziotto di passaggio se sapesse la strada per
Betelgeuse. Il poliziotto di solito rispondeva qualcosa come: – Non
credete che sia ora di tornare a casa, signore?
– Ma è quello che sto cercando di fare, amico! È proprio quello
che sto cercando di fare! – rispondeva immancabilmente Ford in simili
occasioni.
In effetti, quando guardava fisso ilo cielo, Ford cercava davvero un
qualsiasi tipo di disco volante. La ragione per cui diceva che cercava
quelli verdi era che il verde era il colore della divisa spaziale degli
esploratori commerciali di Betelgeuse.
Ford Prefect disperava ormai di vedere arrivare presto un qualsiasi
disco volante, perché quindici anni erano parecchi per rimanere
arenati da qualsiasi parte, e in particolare in un posto
insopportabilmente noioso come la Terra.
Ford sperava ardentemente che arrivasse presto un disco volante
perché sapeva come farlo scendere e chiedere un passaggio. E sapeva
anche come vedere le Meraviglie dell’Universo spendendo meno di
trenta dollari altairiani al giorno.
Perché Ford Prefect era un ricercatore itinerante per conto di quel
notevolissimo libro che è la Guida Galattica per gli Autostoppisti.
摘要:

DouglasAdamsGUIDAGALATTICAPERGLIAUTOSTOPPISTI(TheHitch–HikersGuideToTheGalaxy)©1979DouglasAdams©1980ArnoldoMondadoriEditoreS.p.A.,MilanoTraduzionediLauraSerraURANIAn.843–6luglio19803–Lontano,neidimenticatispazinonsegnatinellecartegeografichedell’estremolimitedellaSpiraleOvestdellaGalassia,c’èunpicco...

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