James Herbert - Fluke

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JAMES HERBERT
FLUKE
(Fluke, 1977)
PARTE PRIMA
1
Sognando, rimpiangevo di non essere più nel ventre di mia ma-dre. Ricordavo che eravamo stati in
cinque o sei a condivi-dere quel tepore. Ricordavo an-che, sognando, le settimane che avevo vissuto con
i cuccioli miei fratelli, e poi il giorno in cui ero finito qui, nel canile municipale dove dormivo ades-so...
Mi svegliai con un guaito di terrore. Il cervello sembrava scoppiarmi per l'improvvisa consapevolezza di
qualcos'al-tro, per un ricordo che s'era insinuato in me da non so do-ve. Io non ero un cane. Ero un
uomo. Ero esistito come uomo, prima di ritrovarmi impri-gionato nel corpo di un cane. Come? Perché?
(Aspetta a dubitare, tu che m'ascolti. O in fondo al tuo dubbio c'è un po' di paura? La sola cosa che ti
chiedo è di ascoltarmi con mente aperta, di-menticando per un momento le tue pretese certezze. Del
resto ci sono molte cose che io stes-so non so e che probabilmente non saprò mai; non in questa vita,
comunque. Ma credo di poterti aiutare a capire un po' meglio la tua vita di adesso, e ad avere meno
paura di quel-lo che ti aspetta...)
Il mio guaito acutissimo aveva svegliato gli altri cani, che si misero ad abbaiare e ringhia-re contro di me.
Il canile di-ventò un pandemonio. Ma io restavo lì tremante e immo-bile. Sapevo di essere un uomo.
Potevo vedere me stesso. Pote-vo vedere mia moglie. Potevo vedere mia figlia. Le immagini si
affollavano nella mia mente, ora confuse, ora distinte, osses-sionandomi e gettandomi in uno stato di
disorientamento assoluto.
Improvvisamente il locale fu inondato di luce: io chiusi gli occhi, abbagliato. Udii le voci degli uomini e li
riaprii. Si aprì una porta ed entrarono due pellibianche vocianti e minac-ciosi.
— È ancora quel dannato cucciolo — sentii dire a uno dei due. — Non ha fatto che com-binare guai da
quando è arriva-to.
Una grande mano si protese verso di me, mi afferrò senza delicatezza. Tenendomi per il collare mi
trascinarono fuori dalla gabbia, attraverso un lun-go corridoio con altre gabbie da una parte e dall'altra
piene di cani che guaivano e uggio-lavano, tanto per contribuire anch'essi al frastuono generale.
Finalmente mi gettarono in un canile buio, separato dalle al-tre gabbie, dove mettevano di solito i cani che
davano noia. Mentre la porta si chiudeva, sentii che uno degli uomini di-ceva: — Bisognerà eliminarlo
domani. Chi vuoi che si prenda un bastardo così? E comun-que, non fa che disturbare gli altri.
Non sentii la risposta, per-ché le parole dell'uomo mi ave-vano spaventato a morte. Ero ancora confuso
per la spaven-tosa consapevolezza di essere uomo, ma la frase brutale era emersa vivida tra la nebbia
che mi offuscava la mente. In piedi nel buio, il corpo rigido e la mente in fermento, cominciai a piangere.
Cosa mi era suc-cesso? Perché la mia nuova vita doveva essere tanto breve? Mi accasciai a terra
disperato.
Ma presto altri istinti si fe-cero sentire: tra i miei pensie-ri annebbiati dall'autocommi-serazione cominciò
a farsi un certo ordine. Ero stato uomo, su questo non c'era dubbio. Avevo la mente di un uomo. Avevo
capito le parole dell'uo-mo: non il significato generale della frase, ma ogni singola pa-rola. Forse potevo
parlare? Mi ci provai, ma dalle fauci mi uscì solo un patetico mugolio. Cercai di chiamare gli uomini, ma
ero solo un cane che abba-iava. Cercai di concentrarmi sulla mia vita precedente, ma le immagini mentali
erano con-fuse e sfumate. Come avevo fatto a diventare un cane? Ave-vano trapiantato il mio cervello
nel corpo di un cane? Qualche pazzo aveva compiuto lo spa-ventoso esperimento di conser-vare in vita il
cervello lascian-do morire il corpo? No, impos-sibile.
Nei miei sogni ricordavo an-cora mia madre cagna, gli altri cuccioli della figliata, la lingua di mia madre
che mi leccava. Illusione? Ero in realtà il risul-tato di un esperimento folle? In questo caso, però, mi sarei
dovuto trovare in un laborato-rio dalle macchine luccicanti, e non in questa squallida prigio-ne di legno.
Una spiegazione ci doveva essere, razionale o folle, e io avrei scoperto la verità. Il mi-stero salvò la mia
sanità men-tale, perché s'imponeva alla mia volontà. O, se preferite, perché mi dava un destino.
Prima di tutto dovevo cal-marmi. È strano ora riflettere con quanta freddezza cominciai a pensare quella
notte, con quanta forza tenni sotto controllo la spaventosa consapevo-lezza: per merito dello shock,
penso, come qualche volta av-viene. Lo shock intorpidisce le più sensibili cellule cerebrali, e questo aiuta
a sopravvivere, perché permette di pensare lo-gicamente e freddamente.
Non era ancora il momento di forzare la mia memoria affin-ché rivelasse tutti i suoi segre-ti - cosa
impossibile, del resto. Avrei aspettato, in attesa che i frammenti di ricordi si coagu-lassero in qualcosa di
definiti-vo; le immagini tanto confuse avrebbero potuto diventare più definitive se avessi cercato - e
trovato - il mio passato.
Ma, prima, dovevo scappa-re.
2
Il rumore del catenaccio che si apriva mi riscosse dal sonno: un sonno pesante e vuoto di sogni.
Immagino che il mio cer-vello stanco avesse deciso di chiudere per la notte per poter-si riprendere dai
traumi che aveva ricevuto.
Sbadigliai e mi stiracchiai. Poi mi feci attento: ecco la mia possibilità. Se dovevo essere ucciso oggi,
bisognava che facessi la mia mossa subito, anti-cipandoli sul tempo. Vennero a prendermi per portarmi
nella camera della morte, e l'incon-sapevole disagio che provava-no per quello che stavano per farmi li
aveva già messi sul chi vive. Gli uomini trasmettono con facilità le loro emozioni agli animali, perché la
loro aura le irradia come radioonde. An-che gli insetti riescono a perce-pirle. Anche le piante. Gli
ani-mali sentono gli impulsi di chi sta per ucciderli, e reagiscono in modi diversi: alcuni diventa-no
tranquilli, inerti; altri si fan-no nervosi, difficili da trattare. Un buon veterinario lo sa, e cerca di mascherare
le sue emozioni in modo che l'anima-le resti calmo: ma non è che di solito ci riesca molto bene, e allora
cominciano i guai. An-cora speravo che quella visita avesse, per così dire, uno scopo sociale e non
quell'altro, più spaventoso.
Si affacciò alla porta una ra-gazza di diciotto o diciannove anni con il solito camice bian-co di quelli del
canile. Fece in tempo a dire: — Salve, cane — prima che io percepissi un'aura luttuosa e partissi a razzo.
Non fece neanche il tentativo di af-ferrarmi quando le sfrecciai accanto: o l'avevo colta di sor-presa
oppure, dentro di sé, era segretamente compiaciuta che io cercassi di riguadagnare la libertà.
Slittai quando piegai brusca-mente da una parte per non fi-nire contro la gabbia davanti alla mia; poi le
unghie fecero presa nella terra battuta e sfrecciai nel cortile cercando disperatamente una via d'usci-ta. La
ragazza mi inseguiva senza troppa voglia mentre io correvo da un angolo all'altro. C'era una porta che si
apriva verso il mondo esterno, ma era chiusa e non avevo modo di aprirla. Il fatto di essere un ca-ne era
orribilmente frustrante: se fossi stato uomo, sarebbe sta-to un affare da nulla aprire il catenaccio e
andarmene (ma, naturalmente, se fossi stato uo-mo non mi sarei trovato rin-chiuso nel canile municipale).
Mi girai ringhiando verso la ragazza che si avvicinava di-cendo parole rassicuranti. I pe-li ritti, mi piegai
sulle zampe davanti, mentre i quarti poste-riori vibravano per la forza che si accumulava in vista del
bal-zo. La ragazza si fermò, esitan-do: percepivo le sue emozioni, dubbio e paura, come onde che mi
colpivano.
Ci fronteggiavamo e a lei spiaceva per me come a me spiaceva per lei. Nessuno dei due voleva far male
all'altro.
In fondo al cortile si aprì una porta. Ne uscì un uomo dall'espressione irosa.
— Cos'è questo casino, Judith? Ti avevo detto di andare a prendere il cane della gabbia nove. — Mi
vide lì accucciato e la sua espressione mutò. Era esasperato. Si fece avanti bron-tolando bestemmie. Vidi
la mia chance: aveva lasciato la porta aperta.
Sfrecciai accanto alla ragaz-za; l'uomo, ora in mezzo al cor-tile, aprì le braccia e le gambe per
prendermi. Gli passai in mezzo alle gambe, che cercò invano di richiudere, gemendo invece quando gli
stinchi urta-rono l'uno contro l'altro. Lo lasciai a saltellare su e giù e in-filai la porta: davanti a me c'e-ra
un lungo corridoio poco il-luminato con molte porte. In fondo, la grande porta sbarra-ta che dava sulla
strada. Corsi per quel corridoio stimolato dalle urla che si stavano avvi-cinando, cercando
disperata-mente una via d'uscita.
Una porta, a sinistra, era socchiusa: balzai nella stanza senza fermarmi. Una donna, inginocchiata in un
angolo del-la stanza per infilare la spina di una teiera elettrica, si limitò a fissarmi, troppo sorpresa per
muoversi. Spaventata, fece per alzarsi, e io mi rifugiai, sotto la scrivania. Sentii l'odore dell'a-ria aperta e,
guardando in su, vidi una finestra aperta. Una mano si protendeva verso di me, adesso, e la donna mi
par-lava in tono amichevole. Corsi fuori, balzai sul davanzale, sal-tai dalla finestra.
Spaventoso. Ero ancora nel cortile.
La ragazza, Judith, mi vide e chiamò l'uomo che era en-trato nell'edificio a cercarmi, ma l'abbaiare dei
cani soffocò il suo grido. Attraversai cor-rendo la porta, dietro l'uomo che cercava di prendermi.
Questi, confuso, gridò quan-do gli passai accanto, e si get-tò subito all'inseguimento. Ero certo che
avrebbero avuto il buon senso di chiudere o la fi-nestra o la porta se avessi fat-to di nuovo il giochetto di
pri-ma, e così ignorai la porta aperta dell'ufficio. Trovai un'al-ternativa: di fronte alla pe-sante porta
chiusa che dava sulla strada c'era una grande scala di legno scuro. Feci una curva a U un po' annaspante
e corsi su per i gradini, le mie gambe corte che si muovevano come pistoni. Anche l'uomo cominciò a
correre su per le scale, e le sue lunghe gambe gli davano un vantaggio che io non avevo. Si lanciò in
avanti con le mani protese e io mi fer-mai di colpo, bloccato dalla sua mano che mi aveva preso per una
zampa posteriore. Guaii, uggiolai, cercai di divin-colarmi: niente da fare, non potevo liberarmi dalla sua
stret-ta potente.
L'uomo, con uno strattone, mi tirò verso di lui, mi prese per il collo con l'altra mano. Lasciò la zampa e
tenendomi con entrambe le mani mi strin-se contro di sé. Ebbi almeno la soddisfazione (ma la cosa non fu
affatto intenzionale) di far-gliela addosso.
La mia buona stella volle che in quel preciso momento qualcun altro decidesse che era finalmente ora di
presentarsi al lavoro. Un raggio di sole illu-minò il pavimento: la porta si era aperta, e stava entrando un
uomo con una cartella. Si fer-mò osservando sorpreso la sce-na: la ragazza Judith e la don-na della teiera
guardavano an-siose un uomo che si agitava bestemmiando tenendo un cane che si divincolava col
brac-cio proteso, il più lontano pos-sibile da sé, per evitare - inu-tilmente - lo schizzo di urina che gli
pioveva addosso.
Era il momento giusto, e con una contorsione piantai i denti nella mano dell'uomo. Allora non avevo le
mascelle molto forti, ma i denti erano aguzzi come aghi. Affondarono nella carne in profondità, il più
pro-fondamente possibile. L'uomo gemette per il dolore inaspetta-to, e allentò la presa; immagi-no che la
combinazione di due sensazioni così diverse come il bagnato da una parte e il dolo-re bruciante dall'altra
non gli lasciassero altre alternative. Caddi sui gradini e rotolai giù per le scale, guaendo più per la paura
che per il dolore. Quando arrivai dabbasso mi misi in piedi a fatica, scossi un po' la testa e sfrecciai fuori
nel sole.
Fu come sfondare un foglio di carta: da un mondo buio e funereo in un'altra dimensione di luce e di
speranza. Il gusto della libertà mi esaltava, ed ero eccitato dal contrasto tra la penombra del canile e la
luce del sole, la vita tumultuosa che fer-veva in quest'altro mondo. Ero libero, e la libertà diede nuovo
vigore alle mie giovani mem-bra. Ero in fuga, e nessuno mi inseguiva: nulla al mondo mi avrebbe
comunque raggiunto. Assaporavo il gusto della vita mentre domande senza rispo-sta rimbalzavano nel
mio cer-vello.
Corsi, corsi e corsi.
3
Corsi fino a non poterne più, evitando le automobili, igno-rando gli allettamenti o le ma-ledizioni dei
passanti, non pen-sando ad altro che alla fuga e alla libertà. Avevo attraversa-to un mucchio di strade,
senza pensare al pericolo perché an-gosciato da un terrore maggio-re, quello della cattura, e avevo
trovato un rifugio più tranquil-lo in certi vicoli; ma non per questo rallentai il passo, e le mie unghie
ticchettavano con-tro il marciapiede di cemento. Entrai di corsa nel cortile di una vecchia casa
d'appartamen-ti di mattoni rossi anneriti dal-la fuliggine; finalmente, nel bu-io pozzo delle scale, mi fermai
tremando. La lingua mi pen-deva flaccida dalla mascella in-feriore, gli occhi spaventati dalla paura
retrospettiva, il corpo torpido per l'enorme stan-chezza. Avevo percorso due miglia filate, tutte di corsa e
senza fermarmi mai, e per un cucciolo questa è una bella di-stanza.
Mi sedetti sul freddo pavi-mento di pietra e cercai di ri-prendere il controllo dei nervi. Credo di essere
rimasto accucciato laggiù, troppo stanco per muovermi, per un'ora e più. Ero troppo esausto per
pensa-re, e l'eccitazione della fuga era scomparsa insieme alle mie forze. Il rumore di un passo pesante:
alzai la testa di scat-to e rizzai le orecchie. Fino a quel momento non mi ero reso conto di quanto fosse
più acuto il mio udito di cane: passarono molti secondi prima che chi camminava si facesse vedere. Una
figura immensa apparve sulla porta, togliendo la poca luce che riusciva a filtrare nel pozzo delle scale;
vidi, in con-troluce, che si trattava di una donna enorme. Potrebbe forse sembrare esagerato dire che
es-sa occupava tutto il mio campo visivo, ma a me sembrò proprio così. Era come se quella mole stesse
per avvilupparmi, per ro-tolarmi addosso in modo che io, spiaccicato, non sarei stato altro che un sottile
strato di carne sopra agli innumerevoli stra-ti di carne e grasso che già la ricoprivano. Mi feci piccolo
piccolo e strisciai sul pavimen-to: non c'era orgoglio o sfida in me, né virilità che tenesse a freno la
codardia infinita che mi invadeva, perché non ero più uomo. Ma il mio terrore di-minuì un poco
ascoltando le pa-role di lei.
— Ciao, cane. Che ci fai qui? — Era una voce grossa co-me il suo corpo, rimbombante e stridente; ma
il tono cordiale indicava che era piacevolmente sorpresa. Appoggiò a terra con un grugnito le sporte
ricolme e si piegò, enorme, su di me.
— Da dove vieni, eh? Ti sei perso?
L'accento era londinese pu-ro: East e South London, pro-babilmente. Mi sottrassi alla mano protesa,
anche se la qua-lità della sua voce non era per nulla allarmante: ma sapevo che se fossi stato afferrato da
quelle dita simili a salsicce non avrei potuto fare nulla. Ma la donna era paziente. E dalle sue dita carnose
emanavano odori deliziosi, travolgenti.
Dapprima annusai piano, co-me a piccoli sorsi, per così dire a naso stretto; poi aspirai a pie-ni polmoni
e la bocca mi si riempì di saliva. Sporsi la lin-gua e roteai gli occhi per l'esta-si. Cosa non mangiava quella
donna! Sentivo l'odore di ba-con, fagioli, un aroma piccan-te di carne che non conoscevo, formaggio,
pane, burro - oh, il burro! - marmellata (non mol-to buono, questo), cipolle, pomodoro, un altro tipo di
car-ne (manzo, credo) e altri, tan-ti altri. Un sottile aroma ter-roso era la nota dominante, co-me se
avesse appena tirato fuo-ri patate dalla terra; e invece di darmi noia sottolineava l'in-credibile squisitezza
del tutto. Ecco una persona che crede-va nel cibo, che lo adorava con le mani e con il palato; nessun
utensile d'acciaio inossidabile ritardava il passaggio del cibo dal piatto alle mandibole in movimento
perenne: il viaggio poteva compiersi più in fretta e con un carico più abbondante senza intermediari,
usando le dita. A ogni leccata la mia de-vozione ingigantiva.
Quando ebbi leccato ben be-ne quella mano grassa, assapo-randone tutti i profumi, solo al-lora rivolsi la
mia attenzione al resto della donna.
In mezzo a una faccia am-pia, color ruggine, due occhi blu mi guardavano sorridenti. Una faccia color
ruggine? Oh sì, saresti veramente sorpreso dai valori che hanno i volti de-gli uomini se potessi vederli
co-me li vedo io. Vene rosse e blu s'intrecciavano sulle guance carnose e arrossate appena sot-to la
pelle. Altri colori appari-vano sul viso di lei - gialli e arancioni, per lo più - mutan-do e sfumando
continuamente insieme al sangue che circolava ritmicamente nella sua carne. Dal mento spuntava qualche
pelo bruno o grigio, dritto co-me gli aculei di un porcospi-no; rughe profonde si rincor-revano a ricoprire
le guance, salivano sulla fronte, s'intrec-ciavano e si mescolavano, s'in-crociavano e si attenuavano fi-no a
svanire. Una faccia mera-vigliosa!
Vidi tutto questo nella penombra delle scale, ricordati, e controluce. Avevo una vista ec-cezionale, prima
che il tempo me la ottundesse un poco.
La donna schioccò la lingua e fece un risolino. — Hai fame, eh, cucciolo? E sai chi sono, vero? Sai che
sono tua amica?
Permisi che la sua mano mi arruffasse il pelo sulla nuca. Molto rilassante. Sentii l'odore del cibo che era
nelle sporte e avanzai un poco, dilatando le narici.
— Senti l'odore, eh?
Annuii. Avevo una fame da morire.
— Be', guardiamo se c'è qualcuno qui in giro che ti cer-ca.
Si rialzò e andò verso la por-ta. Io trotterellai dietro di lei. Entrambi sporgemmo la testa per guardare in
cortile. Era de-serto.
— Vieni su, allora. Vediamo un po' cosa ti posso dare.
La donna rientrò nella penombra delle scale, prese le sporte con un grugnito e per-corse un breve
corridoio di fian-co al pozzo delle scale, emet-tendo suoni incoraggianti diret-ti a me mentre camminava.
La seguii; dal movimento dei mu-scoli della schiena capii che stavo scodinzolando.
Mise giù le sporte accanto a una porta verniciata di verde, molto scrostata. Tirò fuori un borsellino di
tasca e vi frugò dentro fino a che trovò la chia-ve, maledicendo nel frattempo il fatto che non ci vedeva
più tanto bene. Girò la chiave con mano esperta e aprì la porta con uno spintone; prese le sporte e entrò
in casa. Mi avvi-cinai con prudenza alla porta e annusai. Sentii un odore stan-tio e rancido, né piacevole
né spiacevole: odore di vecchio, di trascuratezza di decenni.
— Entra, amico — mi disse la donna. — Non c'è da aver paura. Bella non ti fa niente.
Ma ancora non me la senti-vo di entrare in casa: ero an-cora nervoso. Si batté sul gi-nocchio per
chiamarmi - un movimento non facile per una delle sue dimensioni - e ciò mise fine alla mia esitazione:
andai verso di lei scodinzolan-do con tanta forza da far vi-brare i miei quarti posteriori.
— Bravo cane — disse con la sua voce aspra. Io capivo il si-gnificato di ogni parola, e non solo il senso
generale del suo atteggiamento. Ero un bravo cane davvero.
In quel momento dimenticai di essere un cane e cercai di ri-sponderle; credo volessi dirle che era molto
gentile e chieder-le se sapeva come mai ero di-ventato cane. Naturalmente, mi limitai ad abbaiare.
— Che c'è? Hai fame? Cer-to che hai fame! Vediamo un po' cosa ti posso dare.
Andò in un'altra stanza e la sentii aprire e chiudere degli sportelli. Per qualche secondo rimasi perplesso
ad ascoltare l'aspro suono della sua voce; poi capii che Bella stava can-tando, intercalando di quando in
quando una parola o due con una monotona serie di "mmmm" e di "lalalaaa".
Poi mi occupai solo dello sfrigolio del grasso che frig-geva nella padella; l'odore del-le salsicce sul fuoco
mi attirò in cucina come l'aspirapolvere attira lo sporco. Le saltai quasi addosso, appoggiando le zam-pe
davanti a una grossa gamba; muovendo la coda con tanta violenza da perdere quasi l'e-quilibrio. Bella
sorrise senten-do i miei uggiolii frenetici e mi accarezzò la testa.
— Povero cagnolino. Ci vuo-le ancora un minuto. Le man-geresti anche crude, eh? Be', porta pazienza
ancora un paio di minuti e poi ce le dividiamo. Ora sta' giù e aspetta. — Mi scostò con gentilezza, ma il
pro-fumo che sentivo era troppo appetitoso: cominciai a spicca-re salti intorno ai fornelli per guardare
dentro la padella.
— Ti scotterai! — mi sgridò. — Via di qui finché non è pron-to! — Mi prese e mi portò fuori della
porta di cucina, dove mi lasciò cadere a terra con un grugnito sommesso. Cercai di tornare in cucina
anche se la porta si stava chiudendo, ma dovetti rinunciare per non la-sciare il naso tra i battenti. Ho
vergogna di confessare che ug-giolai e guaii e grattai il legno della porta: pensavo solo a riempirmi la
pancia con quelle succulente salsicce. Gli interro-gativi sulla mia bizzarra esi-stenza erano dimenticati,
so-praffatti da una fame atavica, istintiva.
Infine, dopo un'eternità, la porta si aprì e una voce ami-chevole mi chiamò dentro. Non ebbi certo
bisogno di essere sollecitato una seconda volta: infilai la porta e corsi dritto verso un piatto appoggiato sul
pavimento contenente tre sal-sicce dall'irresistibile profumo. Ne afferrai una e guaii, perché mi ero
scottato la lingua. Ne addentai un'altra e la lasciai immediatamente cadere per terra. Riuscii ad ingoiare un
pezzetto scottandomi dolorosa-mente la gola. Bella rideva os-servando i miei tentativi; poi me le tolse di
sotto, e io le ab-baiai contro.
— Devi aspettare un momen-to, altrimenti ti farai male.
Prese la salsiccia che già ave-vo intaccato e cominciò a sof-fiarci sopra con sbuffi lunghi e robusti.
Quando le sembrò meno calda la lasciò cadere nella mia bocca rivolta verso di lei. Scomparve in due
bocconi e immediatamente ne chiesi an-cora. Non si curò dei miei ug-giolii d'impazienza e raffreddò
anche la seconda salsiccia. Questa la apprezzai in misura maggiore: la carne saporita mi riempiva la
bocca con i suoi succhi, e debbo dire che mai in vita mia - nelle mie vite, cioè, di uomo e di cane - ho
apprez-zato tanto il cibo come quella salsiccia.
Quando ebbi inghiottita an-che la terza salsiccia, la vec-chia rivolse di nuovo la sua attenzione alla
padella: ne ca-vò altre quattro salsicce infil-zandole con la forchetta e le dispose a due per volta su due
fette di pane. Poi le cosparse di senape e le ricoperse con un'altra fetta di pane: con te-nerezza, come se
stesse metten-do a letto due bambini. Poi aprì le labbra e senz'altri indugi si ficcò in bocca un grosso
pez-zo del sandwich di salsiccia. I suoi denti si richiusero: allon-tanò la mano dalla bocca, e nel pane
compariva ora una gran-de intaccatura semicircolare. Io guardavo pieno di bramosia: la vista delle sue
ganasce ma-sticanti scatenò in me frenetiche richieste, e cercai di saltar-le in grembo. Stavo morendo di
fame! Non aveva nessuna pietà, dunque?
Bella rideva tenendomi lon-tano, alzando il sandwich fuo-ri portata dei miei denti. Poi mi accarezzò la
testa: ebbi for-tuna, perché un pezzo di salsic-cia cadde dal sandwich e io la divorai immediatamente. Mi
leccai le labbra e guardai in su per averne dell'altra.
— Va bene, va bene. Imma-gino che, dopo tutto, faccia meglio a te che a me. — E così dicendo lasciò
cadere, con un sorriso, quanto rimaneva del suo sandwich nel mio piatto sul pavimento.
E così facemmo festa, io e quella grassa signora, godendo ciascuno della compagnia del-l'altro, entrambi
divorando in pochi secondi il nostro cibo, e poi, quando non rimase più nulla, sorridendo e leccandoci le
labbra.
Avevo ancora appetito, ma le salsicce avevano almeno smus-sato la fame più acuta. Lappai con piacere
l'acqua che Bella mi versò in una fondina, e le leccai le mani assaporando ogni particella di cibo. Chiesi
anco-ra da mangiare, ma Bella non capì. Si alzò invece in piedi e cominciò a tirare fuori la spe-sa dalle
sporte: io osservavo con attenzione, pronto a saltare addosso a ogni briciola che potesse cadere per
terra. Era un po' pericoloso intrufolarsi tra quelle gambe massicce, e inol-tre nulla cadde per terra; ma il
gioco mi piacque lo stesso.
Poi Bella mise il mio piatto - che avevo fatto diventare pu-litissimo - nell'acquaio e mi invitò a seguirla.
Sgambettai fi-no al suo salotto e balzai su un vecchio divano polveroso ac-canto a lei. Le andai addosso,
le zampe davanti appoggiate sul suo petto, tra i seni massic-ci, e pieno di gratitudine le lec-cai la faccia.
Era una faccia ot-tima da leccare. Mi accarezzò la testa e la schiena per un po-co; poi le carezze si
fecero più lente e pesanti, come il suo re-spiro.
Bella tirò sul divano quelle sue gambe grosse come tronchi d'albero, appoggiò la testa sul bracciolo del
divano e si addor-mentò. Stranamente, il suo rus-sare mi dava una sensazione di conforto. Schiacciai il
mio cor-po stanco tra la sua pancia montagnosa e lo schienale del divano e subito mi addormen-tai
anch'io profondamente.
Mi svegliai di colpo, spaventato: avevo sentito una chiave che girava nella serratura. Cer-cai di alzarmi in
piedi, ma ave-vo le zampe imprigionate tra lo schienale e il corpo di Bella. Allora alzai la testa e cominciai
ad abbaiare il più forte possi-bile. Bella si svegliò immedia-tamente, ma si guardò intorno per qualche
secondo come se non riuscisse a capire dove si trovava.
— La porta, Bella! — le dissi. — C'è qualcuno che sta cercan-do di entrare!
Naturalmente non mi capì, e con malagrazia mi ordinò di piantarla di abbaiare. Ma io ero troppo giovane
e troppo ecci-tabile, e continuai a latrare a piena gola.
Entrò un uomo, e subito la puzza di alcol mi colpì le na-rici. Il mio padrone di prima mi aveva portato
qualche vol-ta nei pub, e di solito trovavo l'odore di alcol sgradevole ma non disgustoso. Ora, invece,
aveva una puzza come di ma-lattia.
— Che diavolo c'è?
L'uomo avanzava barcollan-do verso di noi. Era abbastan-za giovane, sui trenta o trenta-cinque, ma
calvo prima del tempo; il suo volto ricordava vagamente quello di Bella. Aveva i vestiti piuttosto sporchi,
ma non del tutto in disordine; non aveva camicia, ma solo un golf aderente sotto la giacca. Era piccolo e
insignificante tan-to quanto Bella era grossa e piena di vita: per me era un gi-gante, naturalmente, ma un
gi-gante squallido e insignificante.
— Non sei andato al lavoro? — chiese Bella ancora scombus-solata dal brusco risveglio.
L'uomo non rispose e fece per prendermi. Una smorfia or-ribile gli torceva le labbra. Io ringhiai e feci
l'atto di morder-gli la mano. Non mi piaceva per niente.
— Lascia stare il cane! — Bella scostò la mano di lui e appoggiò le gambe per terra: io caddi nello
spazio vuoto che si era così creato sul divano.
— Cane? E lo chiami un ca-ne, quello? — Mi diede uno scappellotto sulla testa facen-do finta di voler
giocare con me. Lo avvertii di non farlo un'altra volta. — Da dove spun-ta? Lo sai che non si possono
tenere cani qui dentro.
— Lascialo stare. L'ho trova-to sulle scale. Stava morendo di fame, poverino.
Bella si alzò: torreggiava su di me e anche su quell'uomo dalla faccia di faina che immaginavo fosse suo
figlio. —Puzzi — gli disse accostandoglisi in modo da separarci, perché lui non mi tormentasse ancora.
— E il lavoro? Mica puoi an-dartene a spasso così.
L'uomo con la faccia di fai-na maledisse il lavoro e sua madre. — Dov'è il mio pranzo?
— Se l'è mangiato il cane.
Emisi un gemito dentro di me. Questo non mi avrebbe certo reso più simpatico.
— Dannazione! Se davvero questo...
— Mica sapevo che tornavi a casa, no? Credevo che eri al lavoro.
— Be', non è così. Fammi da mangiare.
Pensavo che lei l'avrebbe af-ferrato per la pelle del collo per ficcargli la testa in un sec-chio pieno
d'acqua - e Bella era grossa abbastanza per riuscir-vi; invece no, se ne andò in cu-cina e entrambi
ascoltammo l'acciottolio delle stoviglie.
Lui mi fissò, e io ricambiai nervosamente lo sguardo.
— Giù! — ordinò indicando il pavimento con il pollice.
— Va' all'inferno — replicai con una freddezza che non pro-vavo.
— Ho detto giù! — Mi afferrò e mi sbatté giù dal divano con una forza che mi pietrificò dal-la paura e
con la coda tra le gambe trotterellai in cucina a farmi proteggere da Bella.
— Non preoccuparti, amico. Non gli badare. Ora gli do da mangiare così poi va subito a dormire, sta'
tranquillo. — Si diede da fare a preparargli il pasto mentre io cercavo di star-le il più vicino possibile.
L'o-dore di cibo mi eccitò e mi ri-trovai più affamato di prima. Appoggiai le zampe anteriori sugli ampi
fianchi di lei e chie-si che mi desse ancora da man-giare.
— No, no! Sta' giù. — La mano di lei era decisa, adesso. —Tu hai già mangiato, e ora toc-ca a lui.
Io non me ne diedi per inte-so, ma Bella mi ignorò. Comin-ciò a parlarmi: forse per farmi star buono, o
forse riflettendo ad alta voce.
— Ha preso da suo padre. Niente di buono, ma non ci si può fare nulla. Sono della stes-sa razza.
Avrebbe potuto com-binare qualcosa, quel ragazzo, ma si è rovinato. Come suo pa-dre, che Dio lo
benedica: sono dello stesso sangue. Io ho fat-to del mio meglio, lo sa Dio se non è vero, li ho mantenuti
tutt'e due quando non trovavano lavoro. Tra tutt'e due mi han-no fatto diventare vecchia, mi hanno
consumato, ecco.
L'odore di cibo mi mandava in delirio.
— Ha avuto anche qualche brava ragazza. Ma non è stato capace di tenersele. Quando hanno capito
che tipo era sono scappate un chilometro lonta-no. Non cambierà più, ormai. Arnold! È quasi pronto!
Non ti mettere a dormire!
Bacon, uova, altre salsicce. Oh Dio!
Cominciò a imburrare il pa-ne mentre io non mi allontana-vo di un millimetro dai fornel-li, incurante del
grasso che frig-geva e una goccia del quale, di quando in quando, cadeva sul pavimento. Bella mi
allontanò con un piede e vuotò la padel-la in un piatto. Mise il piatto sul tavolo e frugò in un casset-to per
cercare forchetta e col-tello.
— Arnold! È pronto! — chia-mò lei. Il figlio non rispose. Con un grugnito e uno sguardo deciso Bella
uscì dalla cucina.
Quel piatto abbandonato sul tavolo mi chiamava.
Per colmo di sfortuna la se-dia su cui prima Bella si era se-duta era ancora accostata al ta-volo. Ci saltai
sopra e mancai il colpo; riprovai con furia e fi-nalmente potei appoggiare le zampe sul piano del tavolo.
In quei pochi secondi in cui Bella rimase di là divorai due fette di bacon e una salsiccia e mez-za. Le uova
le tenevo per ulti-me.
Bella udì, insieme, sia il mio guaito d'allarme sia il grido di rabbia di Arnold. Balzai dalla sedia appena in
tempo per evi-tare le mani ad artiglio dell'uo-mo, che si era slanciato per af-ferrarmi alla gola.
Fortunata-mente Bella era lì accanto e lo fermò con il suo corpo massic-cio. Lui la urtò e cadde
scon-ciamente al suolo, come fanno gli ubriachi.
Ma avevo offeso anche Bel-la. Vidi contrarsi i muscoli del suo avambraccio e capii che si accingeva a
punirmi, così cer-cai di tenere il tavolo di cucina tra me e lei. La donna non si curò dei goffi tentativi che
Ar-nold faceva per rialzarsi e si di-resse verso di me. Aspettai fino a che non ebbe girato intorno al
tavolo e non fu che a qualche passo da me; stavo abbassato sulle zampe davanti, il mento che sfiorava il
pavimento, i quarti posteriosi ritti e vibran-ti: sfrecciai sotto il tavolo pun-tando verso la porta aperta, e
finii dritto tra le mani di Ar-nold.
Mi tirò su per la pelle del collo, stringendo forte con en-trambe le mani. Si rialzò a fa-tica e avvicinò la
sua faccia diabolica a pochi centimetri dal mio muso. Io mi contorce-vo disperatamente, e ciò gli fe-ce
perdere l'equilibrio: dovet-te appoggiarsi al tavolo. Le mie zampe posteriori si agitavano disperatamente
per trovare un appoggio: ciò che rimaneva del suo pasto schizzò via in tutte le direzioni, insieme al suo
pa-ne imburrato, alla salsa di pomodoro e a Dio sa che altro.
— Lo ammazzo! — riuscì a gridare prima che gli azzannas-si il naso sottile. (E sono sicu-ro che anche
oggi porta i se-gni dei miei denti.)
— Tiralo via! — gridò a sua madre, e io sentii che dita gros-se come banane mi prendeva-no. Bella mi
strappò via e io ebbi il piacere di vedere il suo naso sanguinante. Lui si coprì la parte offesa con entrambe
le mani e cominciò a saltellare.
— Oh Gesù oh Gesù — diceva Bella. — Devi andartene via. Non ti posso tenere, adesso.
Mi portò fuori della cucina in fretta, nascondendomi col suo corpo alla vista di suo figlio che continuava
a saltella-re lamentandosi, per non cor-rere il rischio che lui si dimen-ticasse del suo dolore, veden-domi,
e mi strozzasse. Anch'io non volevo più rimanere con loro, e non protestai quando mi gettò fuori della
porta di casa. La grande mano discese su di me per un'ultima carezza. — Vai, vai adesso. Vai via —
disse Bella non senza gentilezza; poi la porta si chiuse, e io fui di nuovo solo.
Esitai un attimo guardando con nostalgia la porta verde; ma quando si riaprì vidi Ar-nold col viso
insanguinato e tremante di rabbia, e allora ca-pii che avrei fatto meglio ad andarmene. Schizzai via, con
l'uomo alle calcagna.
摘要:

JAMESHERBERTFLUKE(Fluke,1977) PARTEPRIMA 1 Sognando,rimpiangevodinonesserepiùnelventredimiama­dre.Ricordavocheeravamostatiincinqueoseiacondivi­derequeltepore.Ricordavoan­che,sognando,lesettimanecheavevovissutoconicucciolimieifratelli,epoiilgiornoincuierofinitoqui,nelcanilemunicipaledovedormivoades­s...

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